Taiwan, la sfida di Tsai Ing-wen alle grandi potenze asiatiche

Il pubblico al discorso inaugurale del presidente Tsai Ing-wen
di Jacopo Orsini
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Mercoledì 26 Ottobre 2016, 00:19 - Ultimo aggiornamento: 18:47

TAIPEI - La guida si fa largo fra la folla nell’imponente palazzo del Museo nazionale. Ogni anno a vedere antichi manufatti, ceramiche e opere d’arte che raccontano 8mila anni di storia arrivano più di cinque milioni di visitatori. La metà sono cinesi, indispensabili per sostenere il turismo locale, una delle industrie importanti di Taiwan e della capitale Taipei. Ora però Pechino, dopo l’arrivo al potere la primavera scorsa di Tsai Ing-wen, prima presidente donna esponente del partito indipendentista più ostile alla Cina, potrebbe imporre restrizioni ai viaggi verso l’isola che considera da sempre un pezzo del suo territorio. Il museo si potrà visitare senza dover sgomitare, per la gioia delle guide, ma il calo di turisti dal continente potrebbe danneggiare seriamente l’economia. Che dipende in gran parte dall’ingombrante vicino.

E’ su questo rapporto sbilanciato con Pechino che ruota tutto a Taiwan, governata autonomamente dalla Cina dal 1949, quando il leader nazionalista Chiang Kai-shek si rifugiò sull’isola dopo la sconfitta nella guerra civile contro i comunisti di Mao.

 

 


Da una parte un paese piccolo, di 23 milioni di abitanti, non tanto più grande della Sicilia, relativamente ricco, con un pil pro capite più alto di quello dell’Italia e molto avanzato tecnologicamente. E’ il primo produttore al mondo di pannelli solari e sono taiwanesi alcune delle industrie dell’hi tech più grandi del pianeta, a partire dalla Hon Hai Precision Industry, all’estero nota come Foxconn, la società che assembla gli iPhone, famosa anche per le pesantissime condizioni di lavoro degli operai nelle sue fabbriche (tutte fuori dall’isola). Una nazione dove da una quindicina d’anni i leader sono democraticamente eletti, non del tutto scontato in questa parte del mondo, ma che ancora oggi è riconosciuta solo da una ventina di piccoli paesi, per lo più centroamericani, oltre che dal Vaticano.

Dall’altra la Cina, 1,3 miliardi di abitanti e un’economia seconda solo a quella degli Stati Uniti. Una potenza nucleare, dove non ci sono elezioni libere, che più volte ha minacciato di invadere Taiwan con le armi nel caso si azzardasse a proclamare l’indipendenza. L’autonomia di Taipei infatti non è mai stata accettata da Pechino, che considera la riunificazione inevitabile prima o poi.

Ecco perché l’arrivo al potere di Tsai Ing-wen, 59 anni, leder del Dpp, il partito indipendentista di Taiwan, è stato monitorato così attentamente al di là dello Stretto che divide l’isola dalla terraferma. Laurea in legge, un master alla Cornell University negli Stati Uniti e un dottorato alla London School of economics, un curriculum da tecnocrate, Tsai Ing-wen è stata eletta lo scorso gennaio ma è entrata in carica solo a maggio. Quattordicesimo presidente di Taiwan, prima donna alla guida di un paese asiatico senza aver ereditato la carica da un padre o un marito, Tsai ha scalzato dal potere il più filocinese Ma Ying-jeou, del partito nazionalista (Kmt).

Negli otto anni in cui la Repubblica di Cina, così è chiamata ufficialmente Taiwan, è stata governata da Ma le relazioni con Pechino sono state caratterizzate da una crescita degli scambi commerciali e dei contatti fra le due parti. Una politica che poi però alla lunga ha portato a una crescita dell’influenza cinese sull’isola considerata da molti eccessiva. Una parte della popolazione di Taiwan si è così spaventata e alla fine ha voltato le spalle al partito nazionalista, votando il Dpp alla presidenza con una larga maggioranza. E con l’arrivo di Tsai, terza transizione democratica del potere a Taiwan, le aspirazioni indipendentiste si sono riaccese. Facendo calare il gelo sui rapporti con Pechino. Di fronte a una economia stagnante, nel 2015 la crescita è stata la peggiore degli ultimi sei anni, i rapporti con la Cina non sembrano tuttavia la prima preoccupazione fra i taiwanesi. Anche se c’è chi orgogliosamente dice di vivere sperando di vedere il giorno dell’indipendenza prima di morire.

Dopo il giuramento, il 20 maggio scorso, il discorso inaugurale di Tsai ha però raffreddato gli entusiasmi di chi sperava in un atteggiamento più aggressivo verso Pechino. Davanti a qualche centinaio di dignitari provenienti da tutto il mondo e a qualche migliaio di persone, dopo uno spettacolo in cui si è messa in scena la «perseveranza del popolo taiwanese che non si è mai arreso ai dominatori di turno» e la sua «determinazione a combattere per la libertà», Tsai ha invitato invece a mettere da parte il «bagaglio della storia e impegnarsi in un dialogo positivo a beneficio della popolazione delle due parti». Insomma, semplificando mantenimento dello status quo.

Troppo poco per le rivendicazioni indipendentiste. Ma anche per Pechino. La cautela della neo presidente non è servita infatti a evitare la reazione gelida e preoccupata del grande vicino, che ha rimproverato alla nuova guida di Taiwan di non aver esplicitamente riconosciuto la politica di «una sola Cina». Una formula ambigua, usata da entrambe le parti per descrivere i rapporti fra i due lati dello Stretto, che ognuno interpreta a modo suo.

Tsai è concentrata soprattutto sui problemi interni, sulla necessità di far ripartire l’economia, riformare il sistema pensionistico che rischia la bancarotta e trovare il modo di far aumentare gli stipendi troppo bassi dei giovani. «La gente ha eletto un nuovo presidente e un nuovo governo con una sola singola aspettativa: risolvere i problemi», sono state le parole del presidente nel giorno del suo insediamento.

L'atteggiamento di Tsai «è una dimostrazione di buona volontà verso i cinesi. Ora tocca a Pechino decidere se accettare il ramoscello d’ulivo o no», osserva Shih-Chung Liu, analista del Taiwan Brain Trust, uno dei principali centri studi di Taipei. Si vedrà se Tsai riuscirà a rimetter in moto l’economia, magari allargando i rapporti economici con i paesi del sud e sudest asiatico, mantenendo il dialogo con i cinesi senza farli indispettire. Ma per l’isola, schiacciata dal peso delle potenze vicine, la strada è obbligata. «Il nostro Paese - riassume Chen-Sheng Ho, direttore del dipartimento affari internazionali dell’Istituto di ricerca economica di Taiwan - vuole essere amico di tutti, è l’unico modo per sopravvivere».


 

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