L'articolo 18 scuote il Pd: è sfida al congresso

L'articolo 18 scuote il Pd: è sfida al congresso
di Nino Bertoloni Meli
4 Minuti di Lettura
Giovedì 15 Dicembre 2016, 08:44
Ci mancava il Jobs Act con annesso referendum della Cgil a complicare le cose in casa Pd. «Con il referendum sulla Costituzione vi abbiamo dato una mazzata, con questo della Cgil vi spazzeremo via definitivamente», ringhiava Alfiero Grandi, professorone del No, all'indirizzo di un deputato del Pd. L'articolo 18 piomba fragorosamente nel già acceso dibattito interno al Pd, ne sconvolge orientamenti e posizioni, mette una seria ipoteca sugli esiti dell'Assemblea nazionale prevista per domenica. Che al referendum verrà dato disco verde dalla Consulta l'11 gennaio, viene dato pressoché per scontato, per il semplice motivo, fra gli altri, che relatrice sul tema è stata designata la giudice Sciarra, la stessa che ha da poco bocciato la riforma Madia sulla Pubblica amministrazione.

Nel Pd è già cominciata la guerra sul 18 e annesso referendum. E tanto per cambiare la minoranza è sul piede di guerra, così come la maggioranza, l'un contro gli altri armati. Il referendum si può evitare solo in due modi: o cambiando le norme oggetto dei quesiti, o con le elezioni anticipate. Per Speranza e gli altri, non ci sono dubbi: le norme vanno sì cambiate, ma abolendo sic et simpliciter la norma che abolisce l'articolo 18. Come a dire, un calcio negli stinchi a Matteo Renzi e al suo governo che vararono il Jobs Act come strumento per incentivare i contratti a tempo indeterminato.

Ricorda Andrea Martella, vice capogruppo del Pd alla Camera: «Io feci l'intervento in aula sul Jobs Act, ne ero più che convinto e non sono pentito, e adesso penso che se andassimo al referendum lo vinceremmo, il vento è quello di chi dice No, e noi questa volta saremmo dalla parte del No. E poi, non scordiamoci che l'articolo 18 riguarda una parte infinitesimale del mondo del lavoro, era e rimane un falso problema».

NODO VOUCHER
E' già cominciata una battaglia assai poco sotterranea in commissione Lavoro tra attuali deputati del Pd un tempo sindacalisti Cgil: il presidente Cesare Damiano vuole abolire la norma sul 18, mentre Titti Di Salvo, ex segretaria Cgil del Piemonte ai tempi di Epifani, chiede modifiche in direzione dei quesiti «ma non perché c'è il referendum della Cgil, ma perché lo chiediamo da tempo, sui voucher ad esempio avevamo detto di andare a una verifica di tre mesi, ma visto quel che sono diventati, vanno rivisti». Arriva Gennaro Migliore, che con Di Salvo ha lasciato da tempo Sel per il Pd, e scandisce: «Non lasciamo a Speranza la bandiera di queste questioni. Di più, anche se non si va al referendum, la modifica della legge sul Jobs Act dovrà essere parte integrante del nostro programma di governo con il quale ci presenteremo al voto».

IL VOTO
L'altra strada per evitare il referendum sono le elezioni. Per Matteo Renzi il ragionamento del ministro del Lavoro («al voto anticipato anche per evitare il referendum») non fa una grinza, è quasi un'ovvietà. Per il segretario dem, e non solo per lui, la situazione ha subìto un'ulteriore accelerazione verso le elezioni. Il motivo? Renzi è convinto che questo Parlamento non riuscirà a varare alcuna nuova legge elettorale. Quanto al referendum Cgil, sarebbe folle andare a contarsi sul quesito freschi di scoppola da referendum costituzionale, né è politicamente percorribile la strada di cancellare l'articolo 18 dopo averne fatto uno degli emblemi del governo e averne decantato i risultati positivi. Renzi, poi, è convinto che si stia procedendo a tappe forzate verso il ripristino del proporzionale, non che lui lo voglia, ma i vincitori del referendum a quello spingono e quello vogliono, mentre il Mattarellum non passerebbe anche perché l'80 per cento e passa di parlamentari con quel sistema non rientrerebbe più alla Camera e al Senato, con tre poli nei collegi sarebbe una roulette vera e propria.

La mina è destinata a piombare all'Assemblea di domenica all'Ergife. Lì si parlerà se andare o meno al congresso, se fare o meno le primarie per il segretario, per il candidato premier, o per nessuno e per entrambi. Tutto è ancora aperto. Ma il partito del rinvio e del non elezioni anticipate ha ripreso vigore.

LE POSIZIONI
Il capogruppo al Senato, Luigi Zanda, grande amico di Gentiloni, sostiene di non essere preoccupato del referendum, «bisogna sentire la voce degli elettori», che è un modo di dare ossigeno al neonato governo. Anche un renziano di combattimento come Matteo Richetti si discosta dalla fregola elettorale: «C'è un governo che deve fare delle cose, tra le quali affrontare questa patata bollente del Jobs, facciamolo lavorare. Invece sento in giro spingere al voto quanto prima, mentre sarebbe il momento di ragionare, non di rilanciare di continuo».

In tanto trambusto e stop and go, si è diffusa la voce che Renzi all'Assemblea presenterebbe le dimissioni da segretario, e andrebbe a primarie per candidato premier con Matteo Orfini reggente, come aveva proposto la minoranza interna. Ma siamo ancora a mercoledì.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
© RIPRODUZIONE RISERVATA