Minniti ministro di frontiera: l'uomo dei segreti che media tra le tribù

Minniti (Ansa)
di Mario Ajello
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Mercoledì 9 Agosto 2017, 08:13
È sempre stato l'uomo degli affari riservati e delle missioni segrete. Naturalmente, non ha un profilo Facebook e neppure Twitter. Ma se lo chiami al telefono, Marco Minniti risponde dalla Calabria mentre è in corso, lunedì scorso, il consiglio dei ministri dove lui non è andato («Ma solo per un ritardo tecnico», minimizza com'è nel suo stile ma il motivo vero è evidente) e comunque con la voce che va e che viene a causa del vento del Mediterraneo arriva al nocciolo della questione (tanto per citare un libro di un autore tra filosofia e spionaggio, Graham Green, di cui lui stesso sembra un personaggio): «Se il governo ha scelto una linea è quella la linea da seguire. Logico, no?». Ecco, il tipo e così.

EX LOTHAR
Mai una polemica spicciola. Zero cedevolezza. Se l'è vista in passato con un tipo assai più rognoso del mite Delrio, ossia Massimo D'Alema. Quando insieme andarono a Palazzo Chigi nel 1998. Il premier, invidiosetto della rete di rapporti del suo sottosegretario nei gangli più profondi dello Stato, prese a non parlargli più. Passavano le giornate in stanze quasi adiacenti, ma Max snobbava Marco, che pure con Rondolino, Velardi e Latorre era uno dei suoi Lothar.

«Gli amici mi dicevano: dai, Marco, vai nella sua stanza Massimo, vi abbracciate e così finisce tutto. E io rispondevo: perché devo andare io da lui e non lui da me?». Questo aneddoto ha raccontato Minniti qualche mese fa durante una piacevolissima serata torinese, in quella che un tempo era la casa dove Gramsci viveva e lavorava in un palazzo di Piazza Carlina e ora è diventato un albergo e cocktail bar elegante. E poi come andò a finire con D'Alema, gli viene chiesto? «Un giorno - prosegue Minniti - mi suona il telefono ed era Massimo. Con una scusa riprese a parlarmi. Lui è fatto così». Ma anche Minniti è fatto così.

Non è un tipo cedevole. Lo è perfino meno del suo amico (ex?) D'Alema. Il quale ha sbagliato anche una delle sue ultime previsioni, quando Minniti sostituì Alfano al Viminale: «La nomina di Marco al Viminale fa perdere al Pd, solo per cominciare, almeno 5 punti». Malizie che non intaccano l'imperturbabilità del ministro che gli amici considerano «un militare mascherato da politico» e chi lo conosce sa che, pur essendo calabrese, in realtà è un sabaudo di temperamento. E' uno che ama motteggiare e scherzare, ma se costretto a parlare di cose che riguardano il suo lavoro tende a divagare. E questa si chiama riservatezza, ma è anche una linea filosofica: «La parola serve per spiegare quello che hai già fatto e non quello che vuoi fare».

Il suo professore di latino, anche se poi Minniti si sarebbe laureato in filosofia, del resto gli diceva: «Lei mi sembra portato, più che altro, per la filologia». Proprio per questo quando a Minniti tocca leggere i pistolotti verbosi di Roberto Saviano e di altri santoni del politicamente corretto che non fanno che dirgli che è uno sbirraccio e un fascistone, anche se è nato e cresciuto nel Pci e nei suoi derivati, a lui viene naturale di ragionare - ma riservatamente, com'è ovvio - sulla vuotezza lessicale e sul frou frou di certa presunta contemporaneità.

Viene da una famiglia di militari. Papà generale e così i suoi fratelli. Anche Marco voleva arruolarsi in aviazione, invece si iscrive alla facoltà di Lettere e al Pci, rompendo una tradizione familiare che si ricomporrà molti anni dopo. Nel 1999, mentre da Palazzo Chigi sta gestendo con il premier l'intervento in Kosovo, squilla il telefono. «Domenico», si sente chiamare (è il suo primo nome ma tutti lo hanno sempre chiamato Marco), «sono fiero di te». È il fratello del padre, generale anche lui, con cui non parlava da molti anni. Questo per dire da dove viene. «Una volta - ha raccontato - mi lamentai con mia madre per l'eccessiva severità di papà, lui allora un po' se ne ebbe a male e mi disse: ma se ti permetto perfino di darmi del tu!».

LO SCRITTOIO DEL DUCE
Altra scenetta, molti anni dopo, che descrive il personaggio. «Ti segnalo come capo dei Servizi un serio problema democratico», fu l'esordio di D'Alema al telefono. «Dimmi», replicò Minniti allarmato. «Il problema democratico è Matteo Renzi», disse l'altro con gravità. «Ne terrò conto», tagliò corto Minniti, liquidando imbarazzato il suo ex mentore. Ora va e viene dalla Libia. Ma è il Viminale è la sua casa, e sembra averlo trasformato nel set della trasposizione cinematografica (sarebbe necessaria) del «Deserto della Libia», splendido romanzo dimenticato di Mario Tonino.

Insomma fanno il loro ingresso, per contrattare con Minniti, i capi tribù che governano la Libia: Tuareg, Sulimani, Tebù. Lui li accoglie nella sua ampia stanza punteggiata dalle foto dei suoi quattro cani e da una moltitudine di modellini di aeroplanini jet da combattimento. In questa stessa stanza, Minniti non si è portato la scrivania che aveva quando lavorava a Palazzo Chigi. Cioè quella che era appartenuta al Duce. Una volta lo andarono a trovare due giornalisti e vedendo Minniti seduto dietro quello spartano scrittoio mussoliniano, esclamarono: «Si può dire che è in buone mani». E il ministro scoppiò in una delle sue non rare risate. Che sembrano brevi intervalli, per ricaricarsi. E dedicarsi nuovamente ai Firjan, ai Qadhadhfa e ad altre tribù nordafricane, rivolgendosi così alla sua segreteria: «Mi chiamate i Warfalla?».
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