Fuga dalle urne/ La ferita Capitale non si è rimarginata

di Mario Ajello
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Lunedì 7 Marzo 2016, 00:10
Dopo tutto quello che è accaduto a Roma, non poteva che andare così. La disaffezione, e la rabbia, verso la politica hanno soffiato forte in questi ultimi anni. Mafia Capitale ha rappresentato una ferita profonda e difficile da rimarginare e continua ad essere una vergogna non superabile in poco tempo. Se a questo e a tanto altro, a cominciare da una stagione in cui la Capitale è stata malgovernata e abbandonata a se stessa, si aggiungono come ultima goccia le rivelazioni scabrose che l’ex sindaco Marino dice di voler lanciare tramite il libro che sta scrivendo, il clima in cui si sono svolte queste primarie è evidente a tutti nel suo carico di scorie avvelenate e nell’estrema gravità della situazione. Non soltanto per il Pd ma per l’intera politica a Roma.
 
Dunque, era difficile immaginarsi una partecipazione più consistente di questa, assai risicata, che ha riguardato gli elettori andati ai gazebo per scegliere il candidato sindaco dei democrat. Ma proprio la scarsa affluenza è la prova più clamorosa e più dolorosa che la patologia che aggredisce Roma non si è rimarginata. Consiste nella distanza, nella estraneità, nella incomunicabilità reciproca, in questo momento, tra la Capitale e il maggiore partito italiano. A Napoli, in proporzione, hanno votato in tanti. E così nelle altre città. A Milano, che non è grande come Roma, l’affluenza (60.900 persone) è stata superiore a quella dell’Urbe.


Urbe che nel 2013 ha raggiunto quota centomila e stavolta si è dimezzata. Il confronto tra le due città è impietoso. E il flop romano non va letto, in qualche modo minimizzandolo, come la punizione per la cacciata del sindaco Marino e della sua giunta ad opera del suo partito, a cui è seguito il commissariamento. C’è il segno di una frattura più profonda in queste primarie romane. Che al di là della qualità dei personaggi in scena, si sono rivelate uno schiaffo non in generale al Pd - che nel resto d’Italia è stato capace di mobilitare il proprio popolo - ma al Pd di Roma. Come simbolo di un partito non funzionante, che è stato terminale di logiche clientelari e luogo di intreccio con il sistema politico-amministrativo più oscuro che ha spolpato questa città.

A non portare i cittadini ai gazebo è stato il disgusto verso questi poteri marci. Che comunque, nelle periferie, hanno forse mostrato di non voler mollare la presa. In sede di analisi del voto più a fredde e più ragionate, si vedrà se è davvero così. Ma viene il dubbio che nel flusso, per quanto scarso, di elettori ai gazebo delle periferie ci possa essere lo zampino inquietante dell’apparato correntizio, dei capibastone di sempre, indeboliti da Mafia Capitale ma non disposti ad arrendersi definitivamente.

Il grumo Capitale ha prodotto il grande vuoto che è sotto gli occhi di tutti. E adesso il vincitore della consultazione non può che partire da una lettura attenta di ciò che è accaduto a Roma in questi anni e di cui sono specchio queste primarie. Deve lavorare celermente, e con pochissimo tempo a disposizione, per un’operazione di recupero della fiducia. Ben sapendo che la sfiducia è il vero tallone d’Achille di tutti i partiti, e soprattutto di quello che ha guidato - si fa per dire - il Campidoglio nell’ultima sindacatura, tra inazione e scandali. L’anti-politica ha diversi volti. Può avere quello del voto di protesta o quello, macroscopico come in questa occasione, del non voto. Nessun comportamento elettorale è censurabile. E ciascuno di questi, se non ben valutato e vissuto come forte campanello d’allarme, può inasprirsi ancora di più. Rischiando di staccare la spina a una città che invece ha bisogno di tutta la nuova energia che si merita.
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