La sentenza di Roma/ Un errore cambiare il reato di mafia

di Cesare Mirabelli
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Lunedì 24 Luglio 2017, 00:03
La sentenza del Tribunale di Roma, che ha giudicato 46 imputati, 19 dei quali accusati di associazione mafiosa, ha condannato i principali imputati, Carminati e Buzzi, rispettivamente a 20 e 19 anni di reclusione; a pene decrescenti ma egualmente pesanti gli altri imputati. Se da una parte si è mostrata l’efficacia dell’intervento penale nel colpire reati accertati da un giudice imparziale, dall’altra ne è sorto un inutile strascico polemico, quasi che il processo sia una partita tra accusa e difesa, che vede vincitori e vinti. 

Nel valutare le prove raccolte nel dibattimento, il Tribunale ha ritenuto dimostrata la esistenza di una associazione a delinquere. Ha però escluso che fosse, come avrebbe voluto l’accusa, “di tipo mafioso”, che è tale se si avvale “della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazione, appalti e servizi pubblici”, secondo la definizione dell’art. 416 bis del codice penale, introdotto nel 1982 dalla legge Rognoni La Torre. 

La Procura non ha visto accolta la sua tesi sulla qualificazione della associazione come mafiosa, ma ha visto riconosciuta la esistenza di una pericolosa associazione a delinquere ed ha ottenuto condanne pesanti ed esemplari. La difesa, vedendo cadere questo capo dell’accusa, ha ottenuto che non si applichi il carcere duro, previsto per i mafiosi, a chi ha avuto le condanne più gravi. 

Il dibattito che è sorto sulla interpretazione dell’art. 416 bis del codice penale entusiasmerà i giuristi, sarà motivo dei ricorsi in appello già preannunciati, ed in definitiva della valutazione della Cassazione, che ha come compito istituzionale la uniforme interpretazione del diritto oggettivo. La sostanza delle cose accertata dalla sentenza, che comprende sia il reato associativo sia quelli corruttivi, rimane. Le pesanti pene detentive irrogate colpiscono adeguatamente la infiltrazione criminale e l’intreccio tra malaffare, amministratori e rappresentanti eletti nelle istituzioni. Non sembra carente la definizione della associazione di tipo mafioso, quanto piuttosto la prova che gli elementi che in astratto la caratterizzano sussistano nel caso concreto. E questo sarà oggetto di nuova valutazione nel giudizio di appello. D’altra parte è del tutto inappropriato sollecitare l’intervento del legislatore ogni volta che una vicenda processuale lascia insoddisfatti, sollecitando la introduzione di nuove ipotesi o definizioni di reato e aggravamenti di pena, oppure, secondo l’impulso del momento, percorsi di segno opposto. In questo caso, inoltre, sarebbe del tutto inutile l’intervento del legislatore per “appesantire” la definizione normativa dell’associazione di tipo mafioso, tanto più che non si potrebbe attribuire efficacia retroattiva ad una legge penale che ne aggravi i contorni, per applicarla al processo in corso. D’altra parte escludere che si sia trattato di “mafia capitale”, come si voleva per rappresentare un degrado complessivo della città, non lascia tranquilli. Non significa che organizzazioni mafiose radicate nel Paese ed all’estero, di ben altro spessore organizzativo e criminale, non siano presenti ed operino nella capitale, e siano ben introdotte anche in settori economici adatti al riciclaggio del denaro sporco, come testimoniano i ricorrenti sequestri di pubblici esercizi nei quali risulterebbero investite somme provenienti da attività criminali.

L’azione della Procura si è dimostrata efficace, come pure efficace e tempestiva, compatibilmente con la complessità e il numero degli imputati, la definizione del processo da parte del Tribunale. Questo risultato positivo può tuttavia determinare un effetto inappropriato, se facesse ritenere che siamo al sicuro, che la giustizia penale vigila e interviene, perciò la corruzione è adeguatamente combattuta con gli strumenti penali. Ne risulterebbe una impropria e poco efficace delega all’autorità giudiziaria della verifica del buon andamento della pubblica amministrazione e del controllo della sua correttezza, ben oltre la sfera penale. 

La corruzione va repressa e perseguita penalmente, scoprendo e sanzionando i reati che vengono commessi. Ma va anzitutto prevenuta eliminando gli elementi che costituiscono terreno di coltura della corruzione. Conoscere la patologia per passare alla profilassi, diffondendo vaccini anticorruttivi ed eliminando i fattori di rischio nei quali la corruzione si annida e può allignare.

Recenti esperienze mostrano che l’attività corruttiva trova buon terreno quando gli appalti per le forniture di beni o servizi seguono procedure previste come eccezionali e in situazioni di reale o costruita urgenza; come pure quando le forniture di servizi vengono aggregate in appalti di straordinario rilievo economico, con requisiti che riducono a pochi e prevedibili concorrenti la idoneità a concorre. Sarebbe utile una indagine amministrativa, non penale, sulle situazioni di rischio, condotta a freddo e non sull’onda di singoli casi. 

Le vicende che attraversiamo possono sollecitare una alleanza tra l’amministrazione pubblica e l’imprenditoria seria e corretta che non confida di trarre profitto dalle pieghe dei bandi di gara e non attenda di spartirsi come un bottino i profitti che rendono possibili le forniture pubbliche. È da auspicare che non mancherebbe il sostegno delle espressioni rappresentative delle categorie. 

Trasparenza e semplificazione delle procedure, effettiva apertura alla concorrenza, pubblicità e accesso diffuso alla conoscibilità in rete degli atti, identificabilità dei responsabili di ciascuna fase del procedimento, tempi brevi per ogni passaggio ed eliminazione di tutti quelli non necessari. Operare in questa direzione richiede una impegnativa analisi e ingegnerizzazione dei singoli processi, avvalendosi non solamente di competenze giuridiche, necessarie ma non adeguate o sufficienti, portate piuttosto a dettare regole e talvolta ad introdurre ulteriori appesantimenti, e non piuttosto orientate ad organizzare processi. 

 
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