Da un punto di vista formale, entrambe le tesi sono sostenibili. Lo è quella della Raggi, perché il giudizio immediato - come dice la parola stessa - è o dovrebbe essere quello più prossimo. E lo è quello degli oppositori, perché tra il decreto che dispone il dibattimento e la data della sua celebrazione devono intercorrere almeno trenta giorni, e quindi basta un niente per spostare tutto oltre la temuta scadenza elettorale. Al che la sindaca potrebbe replicare che, con le formalità e le insidie dell’udienza preliminare, il processo slitterebbe lo stesso. Per conto nostro, e per quel poco di esperienza che abbiamo, crediamo che in nessun caso la sentenza sarebbe arrivata, né arriverà, prima delle fatali idi di Marzo.
Vi sono però tre circostanze che vale la pena di considerare. La prima, che l’imputata ha aspettato gli ultimi giorni utili per chiedere il giudizio immediato: se avesse realmente voluto affrettare i tempi avrebbe potuto farlo mesi addietro, quando le era stata notificata la richiesta di rinvio a giudizio del Pm.
La seconda, che in questo modo la Raggi separa la sua posizione da quella del coimputato Marra, complicando un quadro che si dovrebbe invece ragionevolmente definire in modo unitario. E la terza, che, evitando l’udienza preliminare, si sottrae comunque al rischio di una pronuncia di rinvio a giudizio, che formalmente non cambierebbe nulla, ma che sostanzialmente costituirebbe un ulteriore graffio alla sua immagine già dolorosamente scalfita.
Si tratta, come si vede, di una situazione assai complicata tanto sotto il profilo processuale quanto sotto quello politico. E qui risiede la grave patologia che compromette il nostro intero sistema: che mentre la complessità giuridica è determinata dalle regole del nostro codice, quella politica non è giustificata da nessuna ragione plausibile, se non quella, proclamata proprio dal Movimento della Raggi, che pretende ( o pretendeva ) un’assoluta verginità giudiziaria per tutti i pubblici amministratori. In un paese normale un sindaco dovrebbe aspettare serenamente la sentenza definitiva, prima di decidere di abbandonare posto ed elettori. E un partito dovrebbe fare altrettanto prima, durante e dopo la campagna elettorale. Se ora anche i grillini si trovano impantanati, devono solo fare un doveroso e tardivo mea culpa.
Questa inversione di rotta si coniuga con l’attuale scelta della Raggi, che, servendosi legittimamente di uno strumento processuale da lei ritenuto più utile, si allinea alle condotte precedenti di altri suoi colleghi di diverso schieramento: sindaci e ministri che, per aver altrettanto legittimamente invocato le garanzie delle leggi e la presunzione di innocenza, sono stati tuttavia lapidati o addirittura costretti all’abbandono. Questo ulteriore segno di “normalizzazione” riconduce il Movimento nell’alveo prosaico della concretezza realistica, e, se suscita perplessità per la sua incoerenza, nondimeno costituisce per un fatto positivo per la politica nazionale. Quali siano le reazioni delle sue anime più intransigenti e immacolate, è invece un altro problema.
© RIPRODUZIONE RISERVATA