Facoltà in crisi, ma il rilancio è possibile con lo sviluppo della formazione digitale

di Mauro Calise
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Mercoledì 30 Agosto 2017, 00:05
A leggere l’analisi impietosa di Sebastiano Maffettone dei pregiudizi contro i nostri atenei, la domanda spontanea è: come mai? Se, malgrado i pochi fondi e la scarsa considerazione, l’università italiana primeggia, sorge un dubbio.

Come mai non si riesce a ottenere, in Italia, un rilancio strategico del settore che, in ogni Paese, viene considerato il volano della crescita: culturale, civile, economica? Proviamo a evitare le spiegazioni più semplici, come la scarsa sensibilità di una classe politica impegnata a tappare i buchi del passato piuttosto che a aprire varchi nel futuro. E cerchiamo di metterci nei panni dei decisori, immaginando che siano in buona fede. Come si spiega tanta riluttanza? Perché la formazione universitaria non diventa – come dovrebbe e potrebbe - il simbolo di un paese che scommette sulla propria creatività, intelligenza, capacità di innovazione? Forse, la risposta sta nella complessità – e, al tempo stesso, scarsa prevedibilità – della filiera dell’alta formazione.

Ci sono interventi pubblici che richiedono molti anni, investimenti ingenti, e una efficiente macchina amministrativa. E’ il caso del programma per rimettere in sicurezza il nostro patrimonio abitativo. Un impegno doveroso e urgente, ma i cui frutti vedremo tra parecchio tempo, e soltanto se ci sarà una ferrea e tenace volontà politica. Per non parlare della capacità di cittadini e imprese di cooperare in modo virtuoso al risultato, invece di cercare di fregarsi a vicenda. Ci sono altri interventi, invece, che funzionano attraverso automatismi immediati, come quelli sul prelievo fiscale, con un effetto leva sull’economia rapido e – abbastanza – quantificabile. In altri casi – molto frequenti - ci si trova nel mezzo: non c’è una spinta pressante di opinione (o di qualche lobby potente), e non c’è un meccanismo affidabile per conseguire un determinato risultato. La riluttanza – per usare un eufemismo – dei nostri governanti a immettere maggiori risorse nell’indotto universitario nasce, probabilmente, dalla sensazione che si tratti di un’operazione dagli esiti – e dai canali – incerti. Di cui, cioè, non si conoscono bene gli obiettivi, e tanto meno come raggiungerli. Forse è questa la chiave per capire la pervicacia con cui i governi, di destra come di sinistra, hanno continuato a destinare così poca attenzione – e ancor meno quattrini – alla formazione del nostro capitale umano.

Per uscire da questa impasse, occorrerebbe, allora, individuare pochi, circoscritti programmi che abbiano un impatto ravvicinato e facilmente misurabile. Senza abbandonare la richiesta – legittima ma sempre disattesa – di un incremento dei flussi finanziari che adeguino o almeno avvicinino il sistema universitario italiano agli standard europei. Ma privilegiando, nell’immediato, un numero limitato di linee operative ad alta visibilità e rapida realizzabilità. Un esempio emblematico è rappresentato dalla didattica multimediale di qualità.

Da cinque anni, il panorama accademico internazionale è stato messo a soqquadro dalla proliferazione dei Mooc, i Massive Open Online Courses che aggregano, attualmente, la cifra iperbolica di oltre sessanta milioni di studenti. Tutti iscritti gratuitamente a corsi universitari offerti dai più prestigiosi atenei. Si tratta di una innovazione esplosiva, di cui ancora si fa fatica a intravedere gli esiti. La chiave del successo è nella qualità dei docenti e nel formato che viene incontro alle esigenze delle nuove generazioni digitali. Invece di essere percepita come un ripiego, la formazione via Mooc è vissuta come un’occasione per ottenere il meglio della cultura globale, con la flessibilità e la rapidità della rete. Ad oggi, l’erogazione dei Mooc fa capo, prevalentemente a poche grandi piattaforme Usa, come edX (Harvard & Mit) e Coursera. Ma, affidati a una regia pubblica consapevole e lungimirante, i Mooc potrebbero diventare, anche in Italia, uno straordinario strumento per migliorare – con investimenti estremamente esigui - l’insegnamento universitario e diffonderlo a platee molto più ampie. Consentendo, al tempo stesso, di dedicare maggiori energie all’attività di ricerca che, nelle nostre università, viene così spesso sacrificata agli adempimenti didattici o burocratici.

Per una volta, non partiamo da zero. Esistono alcune esperienze pilota, come il portale federica.eu, dell’Università di Napoli Federico II, oggi la principale piattaforma Mooc single-university in Europa. O come Pok, il provider Open Knowledge del Politecnico di Milano. Entrambe depositarie di know-how frutto di una decennale esperienza nel settore, e che potrebbero facilmente fungere da volano per rendere competitivo l’intero sistema paese su un fronte cruciale, e sempre più improcrastinabile. Certo, per questa ricetta della formazione digitale di alta qualità aperta a tutti, continua a mancare un ingrediente. La cosiddetta volontà politica. Se dovesse saltare fuori, batta un click.

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