La scuola torni alla sua centralità

di Biagio de Giovanni
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Mercoledì 7 Settembre 2016, 00:36
La notizia è di quelle che magari non occupano i grandi titoli dei quotidiani, impegnati, come si può immaginare, in ben altro. Ma è notizia abbastanza impressionante e dovrebbe esser destinata a una ampia riflessione. La scuola è in un momento di forti tensioni dopo la distribuzione dei trasferimenti che tante polemiche ha suscitato, lasciando ancora troppe cattedre vuote.

Si aggiunga che una parte consistente dei docenti precari che si son presentati al recente concorso per insegnanti di scuole superiori, destinati ad entrare in ruolo, non hanno superato le prove. Essi continueranno ad insegnare come supplenti, ma sulla loro immagine peserà una situazione imbarazzante, in quanto giudicati insufficienti proprio nel ruolo che comunque si apprestano a svolgere. 

Certo, nella crisi endemica che la scuola italiana attraversa da molto tempo, ci si può chiedere: chi giudica gli insegnanti-giudici? Ci si potrebbe avvolgere in un circolo senza uscita dove non è mai bene trovarsi, ma la domanda non è del tutto incongrua. Diamo per fondato, però, che gli insegnanti-giudici sappiano quel che fanno, anche se penso che il declino della scuola italiana venga da molto lontano, da quando alle straordinarie novità del 1968 fu data, per convenienze politiche, una risposta corporativa, accomodante, permissiva, e la situazione è progressivamente implosa nel tempo.
Vorrei ora metter da parte le cose anche buone fatte dal governo, il coraggio che ci volle per metter mano a quel groviglio immane che è diventata la scuola; limitarmi solo a ricordare la riduzione del precariato che di certo ha alleviato le insicurezze di tanti; né entro nel merito di alcune novità in altri settori della cultura, i musei ad esempio, dove però, per quel che ne so, ho più perplessità che certezze.

Tutta la questione va molto oltre la congiuntura indicata e tocca il tema profondo dell’identità culturale dell’Italia; coinvolge non solo la scuola, ma anche le università e non pochi centri di ricerca, e l’esodo traumatico e costante dei “cervelli” ne è indiscutibile riprova. La questione incontra lo stesso rapporto con l’Europa e pure la natura della sua crisi. Da anni e anni non si parla che di stabilità, di austerità, parole che non vanno, come tali, demonizzate, in quanto la dissennatezza della spesa e la rinuncia alla competitività non sono certo cose da auspicare. Ma quel discorso sembra chiudersi su se stesso, in una dimensione tutta economicistica. Come si fa ad essere competitivi se molte scuole sono fatiscenti, se tanti ragazzi nella mia Napoli, ma non solo, non assolvono l’obbligo scolastico; se le università, soprattutto meridionali, ma non solo, sono da anni e anni quasi prive di risorse, obbligate in parametri astratti e puramente quantitativi; se in grandi università mancano i titolari di materie fondamentali, e così discipline essenziali stanno morendo per asfissia interna? E se molte università stanno combinate come ho detto, perchè sorprendersi che la scuola decade, che si riducono qualità e impegno di molti, se materie simbolo della cultura umanistica, quella che ha costruito l’Europa, vengono spesso viste come un intralcio alla vera conoscenza del mondo? 

Alcuni diranno, la solita nostaglia del tempo che fu, ad opera di un capitano (si fa per dire) di lunghissimo corso quale io sono. Può anche darsi che qualcosa di questo, nelle cose che dico, vi sia. Ma i dati del declino sono impressionanti, e sembrano corrispondere a qualcosa di molto profondo che corre nei nuovi immaginari collettivi che i sistemi delle comunicazioni stanno allevando.

E parto da domande elementari: nella maggioranza delle scuole si continua per davvero ad insegnare a scrivere l’italiano? Non pare, dall’esito di alcuni concorsi, e non solo da questo. Si continua a lavorare alla sottigliezza dei significati? Alla complessità e ricchezza del vocabolario? E poi, a dare il senso dell’unità culturale dell’Italia? Si prova a fornire gli strumenti per acquisire un senso della storia? Anche della propria nazione? Tutto ciò sta andando, credo, con le dovute sacrosante eccezioni, in un archivio polveroso. 

Si dice giustamente: l’integrazione delle nuove etnie che formeranno l’Italia di domani ha necessità assoluta, urgente, di farsi cultura, lingua, storia, per permettere, a chi arriva da culture lontane e diverse, di trovare i necessari raccordi, la necessaria comprensione del paese in cui andranno a vivere. Ma se la scuola non fa più questo per i ragazzi italiani, come potrà farlo per chi viene da lontano, con tutte le immaginabili difficoltà? Temi urgenti, grandi, di tipo nuovo, ma nessuno ne parla se non in occasione di qualche esteriore necessità. E invece, parametri, solo parametri; e magari se si parla di riattivare il senso dell’identità culturale di una nazione (e la scuola serve anche a questo, cosa dimenticata, credo) qualcuno si affretta a dire che è un discorso…neopopulista E invece è proprio il contrario.
 
Per immergersi nell’Europa, per essere Europa, bisogna essere più Italia; e per essere più Italia è necessario pure che le giovani generazioni sappiano che cosa significa essere cittadini del proprio paese, avere questo sentimento complesso che consente di misurarsi con la propria storia e con quella degli altri. 
Mai come nelle grandi fasi di passaggio la scuola diventa centrale. Mai come ora, perciò, quando il mondo da un lato si unifica, dall’altro confligge nel modo più aspro. E’ allora che bisogna essere se stessi, riguadagnare il rapporto con la propria società. Capisco bene (o almeno cerco di capire) quante cose siano mutate nei sistemi formativi, e quanto largo ormai sia ciò che si colloca fuori della scuola, nel libero sistema delle comunicazioni infinite. Ma il passaggio in quella che dovrebbe essere la cultura organizzata non può essere sostituito da nulla, e anzi proprio la spietata concorrenza che viene da fuori, dovrebbe spingere a riguadagnare il senso della formazione scolastica, sfondando ogni austero parametro di Maastricht se ciò dovesse servire a educare le energie vive di un Paese.
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