Il derby degli abeti/ Spelacchio travolto da Rigoglio: ma la colpa non è sua

Il derby degli abeti/ Spelacchio travolto da Rigoglio: ma la colpa non è sua
di Mario Ajello
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Venerdì 15 Dicembre 2017, 00:07 - Ultimo aggiornamento: 16 Dicembre, 18:51

Charles Dickens, che era un tipo molto spiritoso, avrebbe potuto scrivere un altro «Racconto di Natale» a proposito del derby in corso a Roma. Non tra Roma e Lazio. Ma tra Spelacchio e Rigoglio. I due alberi di Natale di Piazza Venezia e di Piazza San Pietro. Quest’ultimo, Rigoglio che fa rima con orgoglio, agli occhi dei romani ha già stravinto la partita. 

E chi passa dalle sue parti esulta: «Anvedi che bbello!», «Ammazza che fusto!», «Me lo sposerei!». Oppure: «Ma davero davero i polacchi si sono privati di questo gioiello, per regalarcelo a noi?!». In realtà la Polonia ha donato al Vaticano questo abete rosso che ha fatto un viaggio di 2.200 chilometri - da Elk, nella zona della Mansuria, nord-est della Polonia, un vero e proprio paradiso naturale - e che è giunto qui pronto a essere illuminato e a illuminare. Diventando una star. 

E Spelacchio? Sembra non toccare palla - anche perché le palle più belle le ha l’altro - in questa strana sfida sbilanciatissima. C’è addirittura chi neppure osa chiamarlo albero, per non offendere i suoi simili, e si limita alla asettica definizione di «essenza arborea». I laziali che gli passano accanto gli gridano: «A’ romanista!». I romanisti che lo incontrano a Piazza Venezia gli urlano: «A’ laziale». Ma tutti insieme sono contro di lui, che - poverino - è emaciato e infreddolito da un freddo che non c’è. Spelacchio proverebbe a difendersi, se potesse parlare: «Non sono brutto, sono sobrio». Ma sarebbe fiato (vegetale) sprecato. 

Se Rigoglio è subito diventato un’attrazione, ed è sempre circondato dall’affetto dei grandi e piccini che lo guardano come una magia, il collega sfortunato dell’altra piazza («Sei più brutto di mia suocera!», è una delle carinerie che gli vengono rivolte) tutti «lo schizzano», come si dice a Roma. Che non significa che lo innaffiano per dargli la forza, la prestanza e la gioia che non ha, ma che lo evitano per non essere contagiati dalla mestizia che emana. 

L’unanimità ha scelto Rigoglio. E l’altro può solo teoricamente sperare che, aggiungi una pallina qui, metti un pennacchio lì, possa imitare quell’attrice racchia su cui Ennio Flaiano ironizzava così: «Come tutte le mattine si alzò, si guardò allo specchio e si vide bruttissima. Ci mise un’ora a diventare solamente brutta». E comunque questa sfida tra i due abeti i romani non l’hanno cercata. Se la sono ritrovata davanti agli occhi. Prima hanno visto comparire quella specie di foresta lussureggiante a San Pietro, proporzionata e connaturata alla maestà del Cupolone. Qualche giorno dopo, hanno visto spuntare a Piazza Venezia, luogo non meno grandioso dell’altro, l’abete proveniente dalla Val di Fiemme, la quale non sarà un incanto come i grandi boschi della Mansuria ma di certo è molto verdeggiante. Infatti quest’albero in origine era frondoso e pingue (come si vede nelle foto della partenza e come i trentini ci tengono a ricordare) e poi all’arrivo e dopo l’arrivo si è smagrito ed è impallidito. Forse per adeguarsi all’ambiente un po’ da «decrescita infelice» o da «economia di guerra» - come amaramente si ironizza nelle pasquinate subito dedicate a Spelacchio - che si vive quaggiù. Anche se il trasporto di quest’albero è costato ai romani 49.000 euro. 

Sarebbe bastata un po’ di cura, un minimo di savoir faire, un unghia di pollice verde e di rispetto del decoro e del ruolo di Roma, per fare restare bello lui e per evitare una brutta figura a lei, cioè alla città. E invece, l’abete di Piazza Venezia s’è trasformato nell’emblema del solito vizio capitolino, spesso applicato a cose più grandi e più importanti: quando il bene c’è, non lo sappiamo valorizzare e tutelare. Da questo punto di vista, Spelacchio ha una sua utilità: ci dà la conferma di ciò che siamo diventati. E ci avverte di un curioso rovesciamento storico. Parafrasando lo slogan anti-comunista del ‘48 - «I cosacchi porteranno i loro cavalli ad abbeverarsi a San Pietro» - ci si consenta una rassegnata constatazione. Stavolta i barbari, saltando a pie’ pari San Pietro, hanno puntato dritto su Piazza Venezia. E purtroppo sono riusciti ad arrivarci. Ci si può consolare così: un bell’albero a Roma c’è, in quel del Vaticano. Peccato però che sia uno Stato straniero.

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