«Erano presenti solo alcuni fogli del ricovero - spiega l'avvocato Renato Mattarelli che ha assistito il figlio della donna - e abbiamo ricostruito con le prove presuntive la sussistenza dei diversi eventi trasfusionali sulla scorta del principio giuridico della "vicinanza della prova"». Vale a dire che «spetta alla struttura sanitaria custodire e rilasciare copia della cartella clinica e lo smarrimento non può ricadere sul paziente, in questo caso l'erede, che avendo l'onere di provare le trasfusioni, si trova così nell'impossibilità di dimostrare a somministrazione di sangue perché colui, contro il quale agisce ha perso la prova. Se così non fosse, per non essere condannati, sarebbe sufficiente per medici e strutture sanitarie perdere o distruggere la documentazione sanitaria».
Quello del sangue infetto è un scandalo italiano a cavallo tra gli anni '70 e '90, l'epatite C è noto come "killer silente" perché la malattia può manifestarsi anche dopo oltre 30 anni dalle trasfusioni. In quello stesso periodo i farmaci emoderivati - per i quali venne usato sangue infetto - fecero migliaia di vittime tra gli emofilici. Il Ministero della salute rileva, comunque, che da oltre dieci anni non ci sono contagi legati alle trasfusioni in sé, mentre si registrano vicende - come mesi fa in provincia di Agrigento - dovute alle scarse condizioni igieniche.
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