Quei grand tour nella Città Eterna

Quei grand tour nella Città Eterna
di Fabio Isman
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Venerdì 21 Ottobre 2016, 22:03
Da Porta del Popolo a Piazza di Spagna: le bellezze dell'Urbe nei racconti di viaggio di Goethe, Stendhal e Lord Byron
 
IN VIAGGIO
Se si proveniva da Nord, si arrivava di solito per la via Francigena: ci si affacciava a quel balcone naturale che è Monte Mario, dove c’è ancora la chiesa di Santa Maria del Soccorso vicino all’hotel Cavalieri, e si guardava a valle. Davanti al panorama e al cupolone, i più si concedevano un «oh» di meraviglia; qualcuno cantava “Te Deum laudamus”. Poi, per la via Trionfale e ponte Milvio, allora l’unico a Nord di San Pietro, si raggiungeva Porta del Popolo. L’arrivo alla meta agognata, preparato da lungo e studiata per decenni, è stato, almeno lungo tre secoli, momento fondamentale del “Grand Tour”: viaggio di istruzione e di formazione, obbligatorio per le classi medio-alte di tutta l’Europa. «Sì, sono finalmente nella capitale del mondo», scrive il 1° novembre 1786 Johann Wolfgang Goethe. Charles Dupaty dice: «Sono arrivato ieri sera assai tardi e non ho chiuso occhio tutta la notte; pensavo: tu sei a Roma».

Stendhal sospira: «Nulla al mondo può essere paragonato a questo spettacolo», davanti alla la Scalinata di Piazza di Spagna, «quartiere più salubre e popoloso, dove gli stranieri trovano con agio alloggi forniti d’ogni comodità», per Alban Butler, 1746. A Porta del Popolo comincia il viaggio di prammatica; perché «tutti siamo pellegrini che cerchiamo l’Italia», spiega ancora Goethe.

UN TERZO
In certi inverni, in una città di 150 mila anime, gli stranieri erano perfino 40 mila: un terzo. Tanti vivevano «in quella piazza dove si stipano tutti gli stranieri». E sempre, come Lord Byron, magari dopo una dose preventiva di chinino anti-malaria, finivano a quel «nobile naufragio in rovinosa perfezione» che è il Colosseo; «un gigantesco vaso in pietra in cui Roma ha raccolto il sangue del mondo» (Gregorovius). «Conoscevo il Tevere già prima della Senna, il Campidoglio prima del Louvre», rivela Guy de Maupassant: Roma studiata e portata «dentro» fin da prima di arrivarci.

LE IMMAGINI
Il cupolone è come un faro; Nino Costa ricorda un pecoraio, nell’assedio del 1849, che ogni mattina, da un’altura, lo guardava dicendo: «La capanna c’è, il pastore torna». E un’inglese che, arrivati a un punto da dove lo si scorgeva, il postiglione arrestava la corsa della carrozza urlando: «Ecco Roma». La «bellissima Fanny Kemble», afferma Livio Jannattoni, prova, vedendolo, «lo stesso tumulto di dubbio, timore, speranza avvertito alle cascate del Niagara». Già nel XII secolo, Ildeberto di Lavardin prorompe: «O Roma non c’è nulla che sia uguale a te: anche distrutta ci insegni quanto saresti stata grande, se intatta».
Per la propria ultima ora, Jacob Burckhardt implorava «una casa alle pendici del Quirinale, finestre su Campidoglio e sul Gianicolo».

RICORDI
Si ripartiva sempre con qualche ricordino: già nel 1573 Antoine Lafréry, editore, mercante, incisore, ne offriva un catalogo di 500 pezzi; e poi, verrà Giovanni Battista Piranesi e le sue stampe ne faranno la fortuna. E’ «il giardino d’Europa» (Anne-Louise Germaine Necker, ovvero la baronessa de Staël), «grande scuola di tutto il mondo» (Johann Joachim Winckelmann). Goethe se ne va piangendo, e piantando due palme a Villa Malta, dove convsersava, con la pittrice Angelika Kauffmann la domenica: «Solo a Roma è possibile prepararsi a vedere Roma». Per Jean Cocteau era «la capitale più viva d’Europa», mentre Fedor Dostoevskij scrive da Roma «e non una parola su Roma: ma che mai potrei scrivere, Dio mio, è mai possibile descriverla in una sola lettera?».
Pierre de Grancourt svela che vi «pensava da decenni»; e Anatole France, che «rimpiangerà i tempi in cui le mandrie pascolavano sul Foro sepolto: vi fu mescolata la sorte del mondo». Anche per altri motivi, politici, scrive Mazzini che «varcando Porta del Popolo» trasalì, «di una scossa quasi elettrica, un getto di nuova vita». Un viaggio contro i mali dell’anima, per conoscere e studiare, anche una tappa verso l’Assoluto. Charles de Brosses: «Gli occhi sono troppo viziati dalle bellezze di Roma». «A ogni passo, Tito Livio, Sallustio, Tacito, Orazio ritornavano alla mia memoria» (Charle Duclos, 1767). Allora, come anche oggi.
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