Il Flaminio, il «nero» e quel silenzio tetro

di Mario Ajello
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Domenica 26 Febbraio 2017, 00:02
«Ma mettere a posto
lo #stadioflaminio?»

@alegass

Passeggiando intorno a quel rudere non vengono in mente soltanto grandi concerti, epici, come quello di David Bowie. Viene da pensare anche a una storia bella e triste che anche in questo luogo - o meglio, l’antenato dello stadio Flaminio ossia lo stadio nazionale al tempo del fascismo - si svolse. Un pomeriggio del giugno 1928, anno sesto del Ventennio, Leone Jacovacci - un pugile italiano ma nero, perché nato da madre congolese - vinse il titolo italiano ed europeo dei pesi medi. Davanti a decine di migliaia di persone sugli spalti e intorno al ring, compresi i gerarchi e grandi personalità del regime come Bottai. Il match Jacovacci contro Bosiso fu l’occasione per il primo collegamento sportivo nazionale dell’Eiar, progenitrice della Rai. Vinse l’italianissimo «negro» (a cui però era stata negata la nazionalità, causa colore della pelle) ma al momento di decretare il suo trionfo il collegamento venne interrotto. Per non dare troppa enfasi alla notizia quasi vergognosa per il fascismo al potere. Poi il nero - in un’epoca nera dal punto di vista ideologico ma non era ammessa una carnagione politicamente scorretta - fu costretto ad abbandonare la boxe e finì a fare il portiere di uno stabile a Milano. Ma una pagina di storia, e non l’unica, si è svolta in questo stadio (prima che venisse rifatto per le Olimpiadi del 1960). Ed è bello immaginare la passione, il calore e il sudore, e i colpi dei pugili e le grida dagli spalti gremiti, di quel giorno lontano. Oggi c’è solo un silenzio tetro, che fruscia tra le erbacce. 

mario.ajello@ilmessaggero.it
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