Divorzia e fa causa a Uber: la moglie aveva scoperto il tradimento a causa di un bug

L'uomo ha chiesto un risarcimento di 45 milioni di euro
di Rachele Grandinetti
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Giovedì 9 Febbraio 2017, 16:21 - Ultimo aggiornamento: 10 Febbraio, 17:45
Basta un login per cambiarti la vita, soprattutto se lo fai dallo smartphone di tua moglie. È stato un gesto inconsapevole quello del francese di 45 anni che ha preso in prestito il telefono della sua dolce metà per accedere all’app di Uber. Voleva un’auto e invece si è trovato a casa con i documenti per il divorzio. Era un giorno qualunque in Costa Azzurra e il protagonista di questa disavventura digitale ha effettuato l’accesso su Uber da un altro dispositivo.

Ovviamente, prima di riconsegnarlo alla destinataria, ha effettuato il logout. Ma qualcosa non ha funzionato fino in fondo e la donna, da quel momento in poi, ha iniziato a ricevere notifiche sugli spostamenti del marito, con tutti i dettagli: nome del conducente, targa, ora di inizio e fine della corsa. La signora ha sentito puzza di bruciato e iniziato a temere un tradimento. Niente di più facile, allora, iniziare a seguirlo per scoprire la verità. D’altronde, le indicazioni le arrivavano comodamente sullo smartphone. Ci aveva visto lungo: il marito era infedele. Così, ha chiesto il divorzio.

La vittima (si fa per dire) ha scoperto poi che, nonostante avesse effettuato il logout correttamente, il suo account era rimasto collegato al telefono della moglie per via di un bug. Di chi è la colpa? Secondo il fedifrago della società a cui ha fatto causa chiedendo un risarcimento di 45 milioni di euro (avrà stimato così il suo matrimonio fallito). Il portavoce di Uber si è rifiutato di rilasciare dichiarazioni a Le Figaro limitandosi ad un «la società non commenta i singoli casi». Eppure il giornale ha fatto un esperimento e ha appurato che la storia si ripete. Il bug, infatti, attacca i sistemi iOS precedenti all’aggiornamento dello scorso 15 dicembre. Pare che Android non abbia questo “difetto”. Il quotidiano Made in France ipotizza che il problema possa derivare dalla gestione dei tokens, gli identificatori a cui ricorrono le app per inoltrare le notifiche su un dispositivo. 
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