Gli ottant'anni di Roberto Gervaso: «Io, un pessimista pronto al sorriso»

Gli ottant'anni di Roberto Gervaso: «Io, un pessimista pronto al sorriso»
di Mario Ajello
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Lunedì 10 Luglio 2017, 14:32 - Ultimo aggiornamento: 13 Luglio, 21:03

Ieri ha compiuto ottant'anni Roberto Gervaso. Bagordi? Macché. Un piatto di spaghetti al pomodoro, due pesche, un bacio dalla moglie Vittoria e qualche abbraccio da quei «teppisti», lui li chiama così, dei suoi nipotini. Il tutto nella casa di campagna, a Sacrofano, dove c'è un'aria serena e una bella piscina.

Gervaso, da qualche ora sei uno splendido ottantenne?
«Sono un ottantenne pieno di acciacchi. Che dimostra il doppio dei suoi anni e in certi periodi sento di averne il triplo. Pur non avendo mai avuto una vocazione socratica, cammino sculettando a causa di una lombosciatalgia ostinata, pervicace e credo inguaribile. E quindi, sculetterò sempre di più».

Ma il gusto dell'esagerazione non lo perdi proprio mai?
«Sto dicendo la verità. E speriamo di rendere l'anima prima che questo sculettamento diventi un vizio o una cattiva abitudine. Ho paura che prima o poi la buoncostume mi venga a prendere. Augurandomi che non abusi di me».

Zoppicando sei arrivato però fino a Milano, e ora vivi lì. Come mai?
«Per ragioni di famiglia. Però io sono nato a Roma, la amo più a morsi che a baci, più a graffi che a carezze.
Finché Roma era un bordello con una maitresse, era possibile viverci. Oggi non c'è una maitresse e Roma è diventata una porcilaia, una discarica a cielo aperto».

La colpa di chi è?
«È dei romani. I quali, da ogni sindaco, prendono il peggio. E non potrebbero essere diversi. Il più accanito dei nemici della Raggi, se messo al posto della sindaca, farebbe come lei o molto peggio di lei. Almeno la Raggi ha la buona volontà, ciò che le manca è l'esperienza. La politica, come diceva Rino Formica, è sangue e merda. Io aggiungerei che è l'arte di maneggiare il letame, senza troppo sporcarsi le mani. Comunque la buona volontà della Raggi non basta. Occorrono tecnica e mestiere. Non si improvvisa niente, e prima o poi si paga tutto. Roma, aveva ragione Flaiano, è diventata l'unica città africana senza un quartiere europeo. In questa città, una volta si viveva, oggi al massimo si sopravvive».

Ma fra altri ottant'anni verrai a morire a Roma?
«La morte è l'unico traguardo che tutti dobbiamo tagliare e nessuno vuole farlo. La domanda è: la morte è un ponte o un abisso?».

Secondo te?
«Io non sono cattolico, sono agnostico. Credo in me, perché ognuno di noi ha in se stesso una scintilla cosmica. Che non si può spegnere. Basta vedere un pidocchio o una foglia, per rendersi conto che c'è un macchinista, un'entità superiore che regola la vita. Sono un deista».

Come Lucrezio nel De rerum natura?
«Sì, è stata una delle mie letture predilette in gioventù. Autore immenso e difficilissimo. Lucrezio sta alla poesia come Tacito sta alla prosa. A me piace leggere libri così, adoro i classici. Cioè i libri che, a giudicare da come scrivono, i giornalisti non hanno mai letto».

Non ti piace la prosa dei tuoi colleghi?
«Si dice sempre che scrivono con i piedi, e invece no: scrivono con i piedi sporchi. E anche sudati. Chi di loro scrive bene, scrive benissimo. Chi scrive male, scrive malissimo. In mezzo, c'è una palude fatta di dilettanti, di improvvisatori che avendo visto dei brutti film e sbirciato dei cattivi romanzi sul giornalismo, crede che il giornalismo sia un hobby».

Invece che cos'è?
«È una milizia che in alcuni diventa una missione. Mentre per la massa, il giornalismo è una carriera che prescinde dalla grammatica e dalla sintassi. I giornali vendono poco perché c'è stata una crisi economica concomitante con una rivoluzione tecnologica. Ma i giornalisti ci hanno messo del loro. Cioè la leggerezza con cui affrontano questa professione. La sindacalizzazione è stata una sciagura per il giornalismo. Lo ha politicizzato, insinuando in esso i due virus più tossici: l'ideologia e il dogma».

Quale mestiere avresti fatto, al posto di questo?
«L'insegnante di scuola media».

Perché?
«Perché quella è l'età in cui si formano le persone. A quindici anni, un ragazzo è meno plasmabile di uno di dodici. In un'altra vita avrei fatto l'insegnante, perché a me piace trasmettere il mio pensiero, le mie idee, il mio mestiere ai giovani. Ai quali ho dato pochissimo. Io sono stato un trappista, sempre chiuso in me stesso. Questo è il mio grande rimpianto».

Che cosa hai sbagliato nella tua vita?
«Ho sempre agognato il successo. Questo spasmodico desiderio di successo mi ha reso troppo vanitoso e esibizionista».

Perciò usi sempre il papillon?
«Ho cominciato a indossarlo, per farmi notare. Poi mi piaceva usarlo e a questo punto non potrei mettere una cravatta perché non mi sentirei elegante. Ormai quella vanità del papillon è diventata per me un coefficiente di eleganza».

Politicamente come ti definiresti: un liberale senza aggettivi?
«Con gli aggettivi. Liberale crociano, einaudiano, giolittiano. Ma anche un conservatore anarchico, come diceva Prezzolini».

Quanto è difficile essere liberali in un Paese populista?
«L'Italia simula il populismo. Che nasce nei Paesi di educazione cattolica. Nelle società protestanti non c'è il populismo, perché quel tipo di cultura responsabilizza la gente. La Riforma è stata la fortuna dell'Europa del Nord e anglosassone e la iattura del mondo mediterraneo, anzi direi levantino. Noi simuliamo il populismo, ma non lo abbiamo dentro perché non siamo cattolici: siamo clericali. Agli italiani piace chi urla, non chi parla. E infatti l'italiano non sa sorridere, l'italiano ride e spesso sguaiatamente. Sghignazza. Perché non è arbitro della propria coscienza. Prima la delegò alla Chiesa e oggi la dedica all'effimero. C'è un momento in cui bisogna guardare avanti e in alto. E poi c'è un altro momento, dopo la maturità, che è quello dei bilanci morali e bisogna guardarsi dentro. Questo vale sia per le persone sia per le nazioni. Ora la contraddizione che vedo è quella di un ottantenne che cerca di guardarsi dentro e di un Paese che è vecchio ma ha paura di farsi l'esame di coscienza».

Perché sei sempre così sorridente e sempre così pessimista?
«Sono sorridente per temperare il mio pessimismo. Chi è il pessimista? È un ottimista male informato. La morte, del resto, non può che renderci pessimisti».

Ma tu vivrai altri ottant'anni, non ti abbattere.
«Io accetto e reagisco all'età. Quando non avrò più queste forze, uscirò dalla vita destituito e non dimissionato».
 
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