Hou Hanru: «La mia sfida
spogliare il Maxxi»

Hou Hanrou
di Simona Antonucci
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Lunedì 14 Aprile 2014, 12:54 - Ultimo aggiornamento: 14:30
Nudo, naked. La sfida del Maxxi, secondo il nuovo direttore Hou Hanru si traduce in una sola parola: Vuoto. Svuoter il museo, per aprirlo al dialogo. La sfida. E non è una provocazione, o una semplice dichiarazione d’intenti. Ma un progetto strutturato “Open Museum Open City” che dura sei settimane a partire dal 20 ottobre e che il direttore artistico del museo romano di arte contemporanea ha presentato, insieme con la presidente Giovanna Melandri e il consigliere Monique Veaute, a una platea di galleristi, collezionisti, artisti e direttori di istituzioni culturali riuniti a Londra, all’istituto di cultura italiano diretto da Caterina Cardona, in ambasciata e alla fondazione per artisti di Nicoletta Fiorucci.



Foro romano. «Un museo non deve soltanto mostrare, ma indicare una via, diventare pioniere di una tendenza - aggiunge il curatore cinese - e secondo me il Maxxi può aspirare a rappresentare quello che secoli fa era il Foro romano: un’architettura pensata per la democrazia. Un luogo aperto a tutti coloro che hanno qualcosa da dire. E sono felice di lanciare questa iniziativa proprio qui, proprio a Londra, davanti ai colleghi anglosassoni che hanno ricreato il loro Foro ad Hyde Park, inventando lo Speaker Corner».



Il tour a Londra. E così il tour organizzato da Melandri per creare dei ponti con partner potenziali e per presentare le mostre in calendario nell’edificio disegnato da Zaha Hadid, che ha proprio a Londra uno studio per 400 architetti, si è trasformato in un momento di riflessione sul ruolo del museo nelle città e nelle comunità. «La mia idea, anzi la nostra, la metteremo in mostra a ottobre: le sale saranno a disposizione degli artisti che monteranno opere site-specific. E avremo ballerini, performer, musicisti, creativi che diranno la loro su suono, natura, sociale, vita domestica, tecnologia. Una fabbrica di cultura aperta giorno e notte».



Giorno e notte?

«Certo, in quei giorni resteremo aperti anche di notte», afferma, sorridendo alla presidente che risponde: «Per fortuna un sacco a pelo ce l’ho. Ci organizzeremo».

Ad aprire le danze (promettono che si potrà anche ballare) di questa “rivoluzione d’ottobre” un Acquisition gala dinner, cena di fundraising per arricchire la collezione.



Che cosa succederà a ottobre, i visitatori entreranno e...?

«Non troveranno vetrine, ma opere pensate per rifondare l’idea di istituzione culturale. Ogni settimana per sei settimane tutto diverso. Una sfida faticosa anche da un punto di vista tecnologico: chiudere tutto e ricominciare per sei volte. Un impegno enorme, ma fondamentale per mostrare un prototipo della nostra società».



Qual è il ruolo sociale dell’arte?

«Non si può chiedere a un artista di avere un ruolo di responsabilità all’interno della società, ma sicuramente di avanzare proposte per una vita migliore. Provvedere alla crescita fornendo il suo sguardo critico. Un qualcosa che ha a che vedere con la libertà di pensiero, in qualsiasi contesto. Un artista deve insegnare a non seguire il consenso».



Siete a Londra per creare un ponte tra Roma e questa città: che cosa hanno in comune oggi le due comunità artistiche?

«Mi viene in mente il Centre Pompidou: l’hanno creato a Parigi un architetto italiano e uno inglese, Piano e Rogers. Erano da soli, contro tutti».



Un contrasto creativo e vincente?

«Londra è una combinazione tra pulsioni radical e tradizione. Un conflitto vitale tra classi dominanti ed emergenti, comunque animate dallo stesso spirito di pragmatismo: il risultato sono i Beatles, Damien Hirst».



E a Roma?

«Roma ha una fortissima caratteristica classica. Dal Colosseo al Barocco. Ma cosa la rende una città unica è proprio il contrasto tra i segni antichi e l’architettura fascista, moderna e poi contemporanea. Un dialogo tra l’enorme patrimonio del passato e le “minoranze”: questo crea la scintilla. Roma non è soltanto il Colosseo, dove tra l’altro venivano uccise centinaia di persone. Ma anche è il Foro, dove si dava voce alle minoranze. Ed è dalla voce delle minoranze che nasce la democrazia».
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