Vinicio Capossela e le sua “Ballate per uomini e bestie”: «La Rete è l'untore del nuovo Evo Medio»

Vinicio Capossela e le sua “Ballate per uomini e bestie”: «La Rete è l'untore del nuovo Evo Medio»
di Simona Orlando
7 Minuti di Lettura
Giovedì 23 Maggio 2019, 16:13
Prima o poi doveva arrivare un disco di Vinicio Capossela intitolato “Ballate per uomini e bestie”, soggetti che hanno affollato il suo repertorio e che forse oggi, nella percezione di disumanità diffusa, si confondono più che mai. Se c’è un precedente nell’epopea caposselliana, sempre sorprendente nella sua varietà e complessità, si intitola "Ovunque proteggi" del 2006. Lì il minotauro, qui l’uro. In entrambi Cristo e Pasolini, il richiamo del primordiale e del sacro, il tempo mitico che diventa eterno presente, brani come sabba che fanno lista di orrori contemporanei in un tentativo di esorcismo, l’assalto di strumenti e rumori: liuto, timpano, zampogna, ciaramella, catene, arpa. Tanti versi ispirati, suoi e di altri (Keats, Wilde, San Francesco), e tanti versi di animali: orsi, porci, asini, licantropi. «Tutti gli imbarcati su quest’arca di Noè, clandestini compresi», ci spiega il cantautore nato ad Hannover 53 anni fa, però cresciuto in Emilia.



Lo incontriamo sui tetti di Roma, l’aspetto da viandante giunto a destinazione dopo lungo cammino, con nel sacco le conquiste del tragitto, quattordici brani che oggi alle 18 presenta alla Fetrinelli di via Appia, moderatore il giornalista Marco Damilano. La rotta, più che per acqua, è per terra, anzi per entroterra, fra deserto, sassi, l’aridità che avanza. Il disco è stato registrato nella sperduta Montecanto in Irpinia (dove sono le sue origini), poi Milano e Sofia. Gli animali non sono addomesticati ma totemici, descrivono caratteristiche umane, e gli uomini si collocano in un tempo in cui prevale il desiderio di carne cruda. L’invito è a divenire come “La Lumaca”, recuperare la sacralità della lentezza, considerare casa quella che ci si porta addosso. Ci sono più capitolazioni che elevazioni. Si viaggia in un pestilente Lazzaretto, nelle fibre carnali o del web. Capossela stila cronache dal Neo Medioevo, in forma di ballata, che gli permette la dismisura, e fa un gran lavoro di vestizione con la Bulgarian National Radio Symphony Orchestra, Marc Ribot, Daniele Sepe, Massimo Zamboni, Teho Teardo. Il live parte il 6 ottobre da Rimini (tappa a Roma 8 dicembre, Auditorium Parco della Musica), anticipato da una serie di atti unici in luoghi specifici (il via 25 maggio da Sermoneta).

Di certo in questo undicesimo lavoro, il tentativo non è di compiacere chi ascolta, al quale si chiede pazienza, partecipazione, lenta masticazione. Se il nuovo cantautorato è tutto sintesi e poco distintivo, se azzera il vocabolario in nome della condivisione, Capossela, che di parole fa scialo, le inventa, le pasteggia, le salva, va come al solito, e per fortuna, all’incontré.

“Ballate per uomini e bestie” nasce da un periodo di reclusione?
«Mica uno, la pena non si sconta mai in una volta sola. Ci sono voluti tre mesi l’anno per sette anni. Ogni tanto bisogna andarsi a purificare dalla mondanità. Sono stato anche in una celletta, con scriptorium, a studiare figure dei libri monastici, l’immaginario medievale dove c’è spazio per le leggende».

Dopo l’isolamento, è facile tornare nel caos?
«È tutto un rapporto di sacralizzazione e profanazione. Puoi sottrarti a una serie di ritualità urbane e avere la sensazione di trovare te stesso ma rischi ti ammutinarti alla storia. In me è più forte la voglia di tornare all’azione e restituire un contributo al mondo in cui, volente o nolente, vivo».

Un mondo colto dal twist de “La peste”. Lei che ha così cura delle parole, in questo brano si ammala di influencer, hashtag, scrolling, trojan.
«Mi piace la lingua inglese. Nel mio disco "All’una e trentacinque circa" mettevo nomi di liquori cosi potevo usarle. Invece dei cocktail, stavolta uso parole tecnologiche che esprimono la natura epidemiologica della Rete. Per la prima e ultima volta nella vita ci metto pure il vocoder».

La Rete è la peste del nuovo Evo Medio?
«No, è l’untore nuovo e poco conosciuto di qualsiasi virulenza, uno strumento basato su velocità e semplificazione, perciò ‘il basso’ viaggia più efficacemente e i fatti sono sostituiti da superstizioni».

Il brano è dedicato a Tiziana Cantone, la ragazza che si è tolta la vita dopo la diffusione dei suoi video hot. La sua morte è una colpa collettiva?
«Mi colpisce sia il voyerismo che l’autoassoluzione. Si diffama, si mette alla gogna, e ci si esenta dalle responsabilità».

"Il povero Cristo" ha un video di Daniele Ciprì girato a Riace, con Marcello Fonte e Enrique Irazoqui. Nel backstage c’era anche l’ex sindaco Mimmo Lucano. Incontri più artici o più umani?
«Come dice Vinicius de Moraes la vita è l’arte dell’incontro. Il più importante è stato con Irazoqui, un pezzo di storia, il Gesù del Vangelo Secondo Matteo. Pasolini rinunciò a girare l’opera in Palestina perché li non trovava volti sui quali non fosse ancora passata la predicazione di Cristo. Scelse invece i contadini del sud».

È il filo rosso che collega Matera a Riace?
«Sì. Già nel ‘64 Pasolini prevedeva che avremmo perso il dialetto, gli artigiani, la nostra cultura millenaria. Ci si ferma all’attualità dell’immigrazione, ma dovremmo andare indietro, al vuoto dei paesi senza linfa perché senza uomo. Se non si capisce questo, non si capisce la bella utopia che c’è dietro il progetto di accoglienza a Riace».

Ha scelto Marcello Fonte perché è il più pasoliniano degli attori?
«Riguardando il video è la cosa che mi commuove di più. Marcello è una creatura proprio nel senso francescano».

Lei canta di una Buona Novella non realizzata. Dal tempo di Cristo a oggi non abbiamo imparato niente?
«Il problema si ripropone perché davvero il messaggio di Cristo era rivoluzionario nella sua semplicità. Andava contro il nostro primo istinto, che non è non soccorrere o abbracciare l’appestato o il povero, ma ingigantire se stessi. Homo Homini Lupus. Mors tua vita mea. Ci vuole lavoro per superare sé stessi e arrivare agli altri. Odiare il prossimo tuo, crearsi un nemico, dividersi, è molto più facile che amare. Una tentazione di scorciatoia a cui questo momento storico offre molte possibilità».

In "La Belle Dame Sans Merci" musica la poesia di John Keats. Cosa l’ha attratta?
«L’incantesimo della bellezza. Quando rimani ad aspettare, sei incapace di prendere qualsiasi strada, è la paralisi dell’attesa nella vicenda amorosa. Niente che indebolisca di più».

Ma Keats glorificava l’inafferrabile. Ciò che non si coglie, non può sfiorire. È l’Ode all’urna greca.
«In rime e lamentazioni per Michelangelo, che ancora non ho pubblicato perché spesso realizzo ciò che ancora non ho scritto invece di mettere in bella copia il già fatto, presi il quadro Noli Me Tangere che incarnava proprio la tensione alla bellezza e la terribilità del tempo. La paralisi dell’attesa può essere un modo di prolungare all’infinito una passione».

La ballata le permette di liberarsi dalla forma-canzone. Non teme di non raggiungere il pubblico?
«Io cerco di descrivere in musica la corsa della giraffa o la scia della lumaca. La musica viene dopo, dà colori a emozioni che stanno nella narrazione, perciò mi sento di usarla con libertà».

In “Nuove Tentazioni di Sant’Antonio” collabora con Massimo Zamboni. Potrebbe essere un brano dei CCCP.
«Un po’ "Punk Islam"! In verità l’ho conosciuto come scrittore di libri che ho amato, poi l’ho incontrato di persona, infine ho scoperto i CCCP».

Da vent’anni c’è al suo fianco la chitarra di Marc Ribot. Che rapporto avete?
«Per me è una figura eroica, lo reputo un genio eppure non ha mai rinunciato a quella sua parte rock ‘n’ roll. Viaggia senza manager, è venuto fra i monti a suonare in una specie di stalla, si espone a progetti non alla sua altezza, tipo suonare con me. Mi ricorda il Noodles di “C’era una volta in America”: “A me piace da matti la puzza della strada, mi fa sentire bene. E mi tira anche di più”. Oltre alla stima, ora c’è l’affetto. Forse è il premio per non essere morti giovani».

Ma quest’incontro artistico con Tom Waits avverrà mai?
«Non voglio incontrarlo, è come l’urna greca di Keats. Il sogno irrealizzato è il più dolce».
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