Ikea? Sì ma non è la soluzione per Perugina

Una manifestazione davanti allo stabilimento Perugina di Sana Sisto
di Giacomo Leonelli (segretario Pd Umbria)
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Martedì 14 Novembre 2017, 16:33
In queste settimane l’agenda politica e istituzionale dell’Umbria è stata caratterizzata inevitabilmente da alcune grandi vertenze: Perugina, Colussi, Novelli.
Vertenze che hanno mobilitato istituzioni, comunità locali e partiti nella ricerca di soluzioni capaci di coniugare tenuta dell’occupazione e della produzione. Il fatto che siano emerse criticità significative in tre poli importanti, accomunati dal medesimo segmento produttivo, e cioè quello alimentare, che in Umbria è storicamente non uno dei tanti, quanto piuttosto quello più identificativo di eccellenze legate a marchi rinomati nel mondo, ci chiama ancora di più a uno sforzo comune. Questo infatti non può riguardare solo le forze sindacali, proprio perché qui il tema non è solamente quello occupazionale, ma riguarda una delle vocazioni industriali prioritarie della nostra regione, che peraltro in altre realtà del paese ha dimostrato ad oggi di essere più impermeabile alla crisi e che in Italia e nel mondo appare tutt’altro che superato o residuale. Va inoltre ricordato che parliamo di realtà che uniscono all’aspetto occupazionale e produttivo anche un fattore emotivo di interconnessione diretta tra posto di lavoro e città. L’esempio più immediato è sicuramente quello della Perugina: l’operaio della Perugina era, ed è tuttora, non un semplice occupato nel settore privato della regione, ma costituisce un profilo identitario della città di Perugia, attraverso cui il prodotto finale assume una garanzia di qualità. Nell’era della competizione globale anche una multinazionale come Nestlé sembra che stia comprendendo come la forza del prodotto a marchio “Perugina” sia indissolubilmente legata all’indicazione “San Sisto – Perugia” nel retro del prodotto e che quel legame lavoro-prodotto-città non è surrogabile da nessuna campagna di comunicazione mondiale. Se tutto questo è vero, deve trovare, a mio parere, subito una netta contrarietà l’ipotesi che vorrebbe riversare parte degli esuberi su gruppi in arrivo sul territorio, come Decathlon (prossimo) o Ikea (possibile). Non solo si certificherebbe infatti l’irrilevanza del know-how del lavoratore, brutalizzando proprio quel legame stretto tra città e prodotto che prima ricordavamo e che ad oggi è elemento di forza di quest’ultimo, ma è del tutto evidente che il territorio locale legittimamente accetterà l’arrivo di certe realtà solamente se queste possano dare una risposta importante alla domanda di occupazione giovanile e di chi magari ha perso il lavoro durante la recente crisi economica. Immaginare che, ad esempio, una realtà come Ikea, che personalmente ritengo un’opportunità da cogliere per il territorio perugino, ferme restando un’attenzione al contenimento dei volumi e una rivoluzione migliorativa della viabilità connessa, possa fungere da camera di compensazione di possibili esuberi della Perugina, significherebbe umiliare le aspettative di centinaia di giovani che pensano legittimamente di poter tentare un’esperienza lavorativa di quel tipo. La domanda quindi è semplice: l’Umbria che ha pagato dazio come poche altre realtà alla crisi economica 2008-14, e che pur arrivando oggi quasi al livello di occupati complessivi del 2008 fa comunque registrare punte del -40% degli occupati under 35 su quei dati, può rompere un patto con quei giovani che in questi anni sono stati respinti inesorabilmente dal mercato del lavoro, trasformando le loro possibili opportunità in una sorta di aspettativa non richiesta e non voluta della generazione dei propri genitori? Personalmente credo che sarebbe l’ennesimo schiaffo a chi in questi anni ne ha presi fin troppi e che invece ha tutto il diritto di chiedere alla politica di essere la priorità dei prossimi anni.
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