Il vescovo di Assisi disposto ad offrirsi in cambio degli ostaggi israeliani: «Volesse il Cielo potessimo fare qualcosa»

Domenico Sorrentino: "La Santa Sede si è dichiarata disponibile a mediare: l’auspicio è che sia presa in considerazione"

il vescovo di Assisi monsignor Domenico Sorrentino
di Franca Giansoldati
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Giovedì 26 Ottobre 2023, 10:48 - Ultimo aggiornamento: 16:30

Al diciannovesimo giorno di prigionia degli oltre duecento ostaggi israeliani, dalla cittadina di Assisi, terra di pace universalmente conosciuta, avanza un'offerta da parte del vescovo Domenico Sorrentino, uomo di grande fede, teologo e con un lungo trascorso in Segreteria di Stato: se dovesse servire per sbloccare la situazione e liberare i bambini, le donne e i ragazzi israeliani nelle mani di Hamas dal 7 ottobre anche lui è disposto ad offrirsi in cambio, esattamente come ha anche proposto la scorsa settimana il cardinale Pierbattista Pizzaballa. «Di fronte a tanto dolore, credo non mancherebbe anche qualche persona eroica, disposta a darsi in ostaggio sostitutivo. Da cristiano e da pastore, io stesso provo questo desiderio». Una opzione dettata dal cuore, spes contra spem, anche se il vescovo sa «che non risolverebbe: Hamas ha giocato con feroce destrezza, in questa sua inumana azione terroristica, proprio la carta degli ostaggi». In una lunga intervista al Messaggero, Sorrentino appare sgomento per questo ennesimo tassello che si va aggiungere alla "terza guerra mondiale a pezzetti" denunciata tante volte da Papa Francesco.

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«Volesse il cielo potessimo qualcosa. Abbiamo qui, soprattutto intorno al Museo della Memoria che ricorda il salvataggio di ebrei negli anni della Shoah, tanti amici di religione ebraica, in Italia, ed anche in Israele e negli Stati Uniti. Mi ha impressionato che, parlando con qualcuno di loro – persone di apertura e di dialogo – in questo momento anch’essi non offrissero nessuna sponda a un possibile compromesso: la reazione dev’essere dura e forte, si tratta di cancellare il “male”. È comprensibile, ma quanto è triste. Come si farà a gettare un ponte? La questione ostaggi ovviamente non può non avere la priorità rispetto a qualunque reazione. Il come gestirla è arma a doppio taglio. Da un lato, il fatto che Hamas non li rilasci infiamma ancor più gli animi degli israeliani spingendoli forse a una vendetta rabbiosa. Dall’altro lato, non rilasciarli costringe la reazione israeliana a una relativa moderazione, allontanando nel tempo l’invasione di terra e dunque suggerendo anche di posticipare il rilascio. Nel frattempo, i bombardamenti producono comunque molti lutti che non risparmiano la popolazione civile non tutta identificabile con Hamas». 

Una via senza sbocco?

«Occorrerebbe davvero una autorità internazionale capace di mediare, accettata dalle due parti, che purtroppo all’ONU semplicemente si fronteggiano con reciproco addebito di responsabilità. La Santa Sede si è dichiarata disponibile: l’auspicio è che sia presa in considerazione». 

Cosa si aspetta da uomo di fede?

«Mi piacerebbe – ma non lo vedo – che da parte dei palestinesi e del mondo arabo ci fosse la condanna esplicita e netta dell’attacco inqualificabile. E mi piacerebbe anche, da parte degli israeliani, una pacata riflessione, non priva di capacità autocritica, su come organizzare una loro politica di sicurezza di lungo periodo tenendo conto sinceramente e anche saggiamente delle istanze palestinesi che lamentano soprusi storici a loro danno.

Si tornerà alla prospettiva dei due popoli e due stati, secondo la proposta ONU? Un nodo davvero aggrovigliato. Non ci resta che la preghiera».

Sono passati 37 anni da quando Wojtyla e tutti i capi delle religioni, compreso il Dalai Lama, il 27 ottobre 1986 arrivarono ad Assisi per la pace. Giovanni Paolo II allora disse: "Anche se ci sono molte e importanti differenze tra noi, c’è anche un fondo comune, donde operare insieme nella soluzione di questa drammatica sfida della nostra epoca: vera pace o guerra catastrofica?" Oggi funzionerebbe un incontro di questo genere?

«Tutti i processi hanno i loro cicli. Ci può essere l’alba radiosa, poi nuvolaglie che si addensano, infine il ritorno del sereno. Il mondo umano è così. Ma la pace resta anelito insopprimibile. E pertanto bisogna sempre riprovarci. L’iniziativa di Papa Woityla fu un “unicum”, anche perché fu l’espressione del modo nuovo, sancito dal Concilio, di porsi amichevolmente nei confronti delle altre religioni. Già questo atto era un evento di pace. Da allora si sono moltiplicati gli incontri inter-religiosi, ed è ormai chiaro per tutti che i fondamentalismi che indulgono al terrorismo e all’assassinio non hanno nulla a che fare con la religione». 

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E' stato siglato nel 2019 negli Emirati Arabi da Papa Francesco un Intento storico di fratellanza con il mondo musulmano. Che portata ha?

«Il documento di Abu-Dhabi, firmato dal Papa e dal grande Imam Ahmad al-Tayyib, lo afferma senza ambiguità. Se in passato c’è potuto essere un equivoco aperto al bellicismo anche nella tradizione biblico-cristiana, oggi si è fatto un passo irreversibile nella comprensione di Dio come Dio della pace. La preghiera, dunque, può e deve unire l’animo di tutti i credenti nell’implorazione della pace. Serve anche a estinguere gli equivoci del passato. In ogni caso, per essere autentica, esige l’impegno a costruire la pace. Questo significa tante cose concrete. A livello dei rapporti tra le nazioni, inevitabilmente apre il tema dell’intelligenza “politica” nel fare dei passi improntati a prudenza, lungimiranza e sana diplomazia, per ottenere il massimo effetto di pace possibile in un dato momento storico. Se anche la Santa Sede tiene conto di questo, non deve sorprendere. Non si tratta di cedere al compromesso morale, ma di perseguire quell’efficacia diplomatica che aiuti i processi riconciliativi. Il valore da perseguire è un pacifico ordine mondiale e a tal fine anche i piccoli passi, ben studiati, ma mai contro la giustizia e il diritto, sono importanti». 

In questo periodo due guerre di aggressione, quella russa contro l' Ucraina e l'altra scatenata con il terrorismo di Hamas contro Israele: da un punto di vista morale, teologico, hanno il diritto di difendersi?

«Certamente lo hanno, ma il come difendersi non è di poco conto. La guerra difensiva, analogamente alla legittima difesa individuale, è consentita, ma a condizione che l’aspetto difensivo sia prevalente sui sentimenti e i gesti di pura reazione vendicativa e porti al minimo di effetti distruttivi delle persone umane, sia della propria parte che di quella avversa. Idealmente, e moralmente, bisognerebbe difendersi senza uccidere. Sappiamo quanto sia difficile, specialmente in un’era in cui gli armamenti hanno raggiunto una forza distruttiva inedita fino al catastrofismo nucleare. Non sono un esperto per dire quanto siano realmente possibili gli interventi “chirurgici”, quelli che toccano solamente i nemici realmente pericolosi. Da quel che vedo, gli effetti letali sui civili e quelli collaterali di distruzione sono sempre più estesi di quello che si vuol far credere dalla propaganda di parte. Resta il fatto – come dice il Papa – che la guerra è sempre “una sconfitta”. Lascia rovine, lutti e lacrime. Anni fa si parlava, almeno in alcuni gruppi culturali e religiosi, di “difesa non violenta”. È diventato tema poco di moda, ma non credo fosse pura utopia. Oggi il massimo a cui si arriva è il principio della difesa “proporzionata”. Dov’è il confine? Io mi auguro che quanti sono preposti a decidere prendano atto che il dolore con cui si percepiscono gli atti di guerra produce quanto meno un effetto di odio che si trascina per generazioni. Si semina il vivaio di altri conflitti sempre pronti ad esplodere. Anche guardare agli effetti futuri entra nella valutazione del diritto a difendersi e del modo di difendersi».

Molti si chiedono perchè tanto odio nei confronti degli ebrei da sempre …

«I motivi sono tanti, e anche ben studiati, da quelli religiosi, a quelli culturali, economici, ecc.. La “differenza” religiosa ebraica, incarnata nella Bibbia e nella esperienza millenaria degli ebrei, è stata spesso provocatoria per le tendenze religiose e politiche totalitarie o anche semplicemente per le culture a tendenza totale e intollerante. Nel mondo cristiano, per secoli, ha pesato anche il giudizio negativo per le scelte delle autorità ebraiche nell’uccisione di Cristo. Una scelta che veniva attribuita tout court ai giudei. Ed era un giudizio profondamente sbagliato. Oggi, dal Vaticano II in poi, siamo in tutt’altro clima. Per me, parlare con gli ebrei, significa parlare con fratelli, e a doppio titolo, anche per la condivisione delle nostre radici religiose. Gesù era un ebreo. Sento in questo momento la loro sofferenza anche come mia. Monsignor Nicolini, che qui ad Assisi si mise personalmente in gioco a rischio della vita, e non solo lui ma anche altri religiosi e laici, per salvare circa trecento ebrei, sentirono altrettanto. Myriam Viterbi, una delle “bimbe” allora salvata, e da poco deceduta a Gerusalemme, mi diceva di sentire Assisi come un abbraccio. Quanto sarebbe bello che questo abbraccio arrivasse oggi agli ebrei, ma anche ai palestinesi. Troppo dolore per gli uni e per gli altri». 

Le religioni possono svolgere un ruolo di moral suasion nelle vicende internazionali oppure non contano quasi nulla?

«Con l’avanzare del secolarismo, e con la scristianizzazione del mondo occidentale, sicuramente contano meno sul piano dell’influenza politica. Meno non significa nulla: ancora ci sono elementi istituzionali e culturali delle religioni che incalzano, in un senso o nell’altro, la politica. Ma certo le religioni non sono più spendibili come un tempo, ovviamente al netto della preghiera, per noi che abbiamo la grazia di credere. Ma lo stato attuale del mondo è così complesso, con problemi di violenza, ingiustizie e di geopolitiche in mutamento, che almeno le persone di buona volontà non possono non sentire la nostalgia di un’etica e di un diritto condivisi. Occorre ricostruirli. In questo le religioni, pur sociologicamente minoritarie, e teologicamente diverse, posseggono una sapienza tradizionale che le rende ancora dei grandi bacini di ispirazione a cui attingere. La politica e l’economia oggi riscoprono, in qualche modo, l’etica, come riscoprono il concetto di felicità. A chi fa comodo un mondo di infelici? Non pare che il mondo senza religione sia diventato più felice. Prima o poi, ci si penserà». 

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Che iniziative spirituali propone al mondo Assisi?

«Ogni mese abbiamo un momento di preghiera che condividiamo con i fratelli e sorelle di altre religioni, facendo il focus su una situazione di conflitto. Questo mese, ovviamente, sulla situazione di Israele. Ma è anche il mese in cui svolgiamo diverse iniziative di riflessione e nell’anniversario del 27 ottobre 1986, giorno che diede vita allo “spirito di Assisi”. Nella preghiera che, in comunione con l’iniziativa presa dal Santo Padre, faremo al Refettorietto della Basilica di Santa Maria degli Angeli, ci saranno anche una rappresentanza ebraica e una musulmana. Pur nella piccolezza, è un segnale. Speriamo si arrivi a maggiori segnali di speranza, e non a nuovi scenari di disperazione». 

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