Massimo Adinolfi

L’assenza di limiti che diventa violenza

di Massimo Adinolfi
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Venerdì 10 Maggio 2024, 00:24

Due domande. La prima. E quelli che stavano seduti, che erano lì per ascoltare, che partecipavano all’evento non per approvare né per contestare ma semplicemente per capire, per interesse alla materia, per fatto personale? Provate a mettervi nei panni del pubblico, di quelli che volevano sentir parlare Eugenia Roccella e non hanno potuto. Erano storditi, stupefatti, alcuni anche straniti, perché la ministra sarà pure, per costoro, l’espressione di un pensiero neoconservatore, chissà, ma intanto il papocchio ideologico recitato sul palco da una delle furenti contestatrici – che impastava, in una stessa frase, natalità, diritto all’autodeterminazione, efferatezze capitalistiche e genocidi a Gaza – sembrava, quello sì, provenire da un altro tempo, da un altro mondo.


Tra quelle persone ci sarebbe stata anche Lidia Ravera, scrittrice e femminista storica, che, a proposito della piazzata agli Stati Generali della natalità ha detto che sì, la ministra deve mettere in conto le contestazioni, ma anche che lei l’avrebbe lasciata parlare. Anche per chi non è sospettabile di simpatie verso Eugenia Roccella, ci sono quindi contestazioni e contestazioni. Ci sono modi di esprimere il dissenso che si misurano – anche duramente - con le opinioni altrui, e modi che invece rifiutano il confronto. Non sono la stessa cosa: i primi hanno diritto di cittadinanza in democrazia; i secondi, no. La protesta andata in scena questa mattina rientra tra questi ultimi, e deve, perciò, preoccupare.

Leggiamo però considerazioni varie e diverse sull’accaduto. Pensavamo che la solidarietà nei confronti della ministra fosse un atto ovvio, che non richiede particolare sensibilità politica, e invece ci sono quelli che minimizzano, perché, fanno intendere, nessuno ha lanciato bombe carta, e poi aggiungono che un ministro queste cose deve aspettarsele. Aspettarsi cosa, precisamente? Aspettarsi i fischi? Forse, ma dopo aver preso la parola, non prima, non per impedire di parlare. Poi ci sono quelli per i quali la democrazia è conflitto, che non si può neutralizzare il conflitto, sterilizzare il conflitto, affidare tutto alle buone maniere democratiche. Per costoro, conflitto è sinonimo di partecipazione, di cittadinanza attiva, di protagonismo politico, e perciò è cosa buona e giusta. Abbiamo qualche difficoltà a iscriverci tra costoro, perché sappiamo cosa si perde ogni volta che il tessuto delle regole democratiche viene strappato, mentre non siamo sicuri di cosa si guadagni.

Al momento, quello che vediamo crescere è un clima di odio, di delegittimazione ideologica dell’avversario politico, in cui si riversa di tutto, e in cui vanno a braccetto il rifiuto del patriarcato e l’antisemitismo, l’abnorme riattualizzazione del pericolo fascista e il pacifismo a senso unico. Quanto poco c’entri tutto questo humus antagonista con la difesa della 194 e del diritto all’aborto ognuno lo vede da sé.

Infine, ci sono quelli per i quali si può togliere la parola a un ministro, perché chi più di un ministro ha mille occasioni di parlare, chi più di un ministro incarna il Potere, chi più di lui (o di lei) può accendere un microfono e dire la sua? Il che è certamente vero, ma chi così argomenta contro il Moloch del potere fa di tutta l’erba un fascio, e trascura il piccolo particolare che quel potere è, oggi, un potere democratico, rappresentativo, liberamente eletto.

Altrimenti come si spiega la pronta solidarietà del Presidente della Repubblica alla ministra?

Proprio ieri, al Salone del libro di Torino, cioè in quello stesso luogo dove lo scorso anno andò in scena lo stesso, increscioso episodio – dove cioè alla stessa persona, alla ministra Roccella, fu già impedito di parlare (il che fra l’altro procura la sgradevolissima sensazione che ci troviamo di fronte a una strategia precisa, e a un bersaglio ben individuato) - lo scrittore Salman Rushdie, accoltellato qualche anno fa da un fanatico islamista, ha detto che il suo unico coltello è la parola. È una sacrosanta verità universale: in democrazia, l’unico coltello ammesso è la parola. Il che significa non solo che nessuna forma di violenza illegittima è ammessa, ma anche che chi non può prendere la parola è scandalosamente privato della sola arma di cui, come cittadino, dispone. Ed è questa l’unica cosa che in nessun caso, ministri o no, si può consentire. Se non si vuole scivolare nelle campagne d’odio, nello scontro ideologico, nella sistematica denigrazione politica.

Dicevamo però di avere un’altra domanda. Più generale. Nasce dalle cupe parole di Pasolini, di ormai cinquant’anni fa: «Là dove tutto è proibito, chi vuole in fondo può fare tutto; là dove invece è permesso qualcosa, si può fare solo quel qualcosa». Pasolini temiamo non sopportasse il conformismo e il permissivismo delle società democratiche e liberali. Ci chiediamo se oggi qualcosa si muova nel profondo della società per tornare lì, dove tutto è proibito, per tutto contestare. Ma la limitazione del «qualcosa, non tutto» è invece la più importante lezione della democrazia. E vale per ogni esercizio della libertà, quello della parola come quello della donna; quello della ministra Roccella come quello di chi la contesta. La contesta e le impone un bavaglio perché non capisce e non accetta che le regole non danno tutto, non danno diritti pieni totali ed esclusivi, ma impediscono che gli stessi diritti siano negati agli altri. Sono i figli del Sé.

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