«A Rafah, dovunque ti trovi, senti sempre la frontiera. Quando si apre il varco, il movimento arriva fino al mare, fino ai quartieri più a est». Alexis Monchovet ha vissuto per anni a Rafah, tra il 2005 e il 2009, poi ci è tornato diverse volte, fino al 2019. Ha girato un documentario, “Rafah, cronache da una città della Striscia di Gaza” che ha vinto il premio Albert Londres, il pulitzer francese. Oggi quando guarda le immagini in tv dice che non riconosce i posti, tranne uno, naturalmente: la frontiera. È una linea che corre dritta come una lama di rasoio per circa 15 chilometri, è una spianata di terra e macerie, un muro color ruggine alto tre metri: da una parte l'Egitto, dall’altra la Palestina, di là il Sinai, qui il Negev, e prima ancora, anche quando non c’era il muro e non c’erano state le guerre mondiali, di là c’erano gli inglesi, e qui l’impero ottomano, di là l’Africa, di qua l’Asia. Come una fascia nella crosta terrestre, un luogo di passaggio, scambio e contrabbando, più spesso un fronte di battaglia. «A Rafah non ci sono alberghi, non ci sono ristoranti, bar, luoghi di divertimento. Anche quando non c’è la guerra, c’è un conflitto latente - racconta Monchovet - Le case si somigliano tutte, costruzioni quadrate, di tre o quattro piani, di cemento».
Philadelphia road
Il quartiere più antico e popolato è quello che non c’è più, lungo la striscia del confine, la Philadelphia road: gli israeliani lo hanno demolito quando venne su la frontiera, prima di filo spinato, poi di cemento, nel 1982.
Zona di frontiera
Lorenzo Navone, sociologo, ricercatore all'Università di Strasburgo, ha fatto della città il suo terreno di ricerca sulle migrazioni, la zona di frontiera. Ogni volta che è stato a Rafah, ha aspettato. La sua esperienza della città è stata quella di centinaia di migliaia di persone negli ultimi decenni: aspettare di entrare, aspettare di uscire. «Il valico apre pochi giorni ogni mese, mese e mezzo - spiega - Dal 2005 fino a oggi è stato l'unico confine esterno dei territori palestinesi. Il blocco ha provocato la costruzione dei tunnel, una vera e propria industria, che l’Egitto ha tollerato fino al 2018; quando sono stati allagati e distruttivi. Rafah è da sempre una zona di passaggio, una zona di traffico e come per tutte le città di frontiera, quando la frontiera si chiude si sviluppano spinte all’attraversamento, forze uguali e opposte alla chiusura. Chi vive lì diventa attore del passaggio».
Ricordi tra le macerie
Karim Kattam è uno scrittore, ha 35 anni, vive a Parigi ed è palestinese. Karim dedica la sua scrittura proprio a questo, a restituire alla Palestina la possibilità di essere un posto normale, dove scorre la vita delle storie d’amore, delle liti famigliari, dei ricordi. Dei romanzi. Ma per trovare i ricordi della gente di Rafah bisogna scavare nelle macerie. Amina Al Ayoui per esempio, cinque figli, l’ultimo di nove mesi, aveva aperto un salone di parrucchiera. Ci aveva investito tutti i risparmi. Non c’è più niente, non ha più nemmeno la casa. Lo racconta senza lacrime nel video di un telefonino, mostrando la cucina di fortuna allestita in una specie di garage, su un fornello da campo: «eppure funzionava, il mio negozio di parrucchiera».