C’era sempre lui nella televisione in bianco e nero della nostra infanzia: inondava la casa del primo dell’anno, ancora imbambolata dai botti di San Silvestro, con le polke, i galop e i valzer della famiglia Strauss, viatico gioioso verso il futuro. Eterno Boskovsky, per 25 anni sul podio della meravigliosa Musikverein di Vienna, velluti rossi e stucchi dorati. I Wiener Philarmoniker lanciavano messaggi e auguri al mondo, e noi lì a crescere tra i volteggi di coppie fruscianti a Schönbrunn (finalmente a colori!), l’esibizione dei cavalli lipizzani e il battimani sulla Marcia di Radetzky, divertiti e mai neanche lontanamente sfiorati dal fatto che sia una marcia di conquista contro gli italiani risorgimentali. Niente politically correct: ci abbagliava lo sfarzo e l’allegria dei direttori d’orchestra che indossavano cappellini, fischietti, inscenando gag con pubblico e orchestrali, come l’austriaco Welser-Möst che per il secondo bis impugnò un mestolo e si mise un cappello da chef. A Vienna il gotha dei direttori d’orchestra: Abbado, Kleiber, Maazel, Pretre, Muti.
E il grande Karajan, un evento nel 1987, a casa un religioso silenzio, il maestro dolorante alla schiena ma perfetto e accessibile a tutti.
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