Le ragioni a favore sono abbastanza semplici e chiare, e si richiamano al principio di libera autodeterminazione della persona: se per la mia felicità e autorealizzazione è essenziale identificarmi con un determinato genere, nessuno deve avere il potere di impedirmelo, o di discriminarmi per questo, o di riversare odio su di me.
Come non essere d’accordo? E invece c’è qualcuno che d’accordo non è. Vediamo le sue ragioni. La prima riguarda le transizioni di genere precoci e medicalmente assistite, con bloccanti della pubertà, ormoni, ed eventuale operazione chirurgica: dopo il rapporto Cass, e alcune importanti revisioni della letteratura, è sempre più evidente che il cosiddetto “protocollo olandese”, finora adottato per trattare le richieste di cambiamento di genere, è privo di basi scientifiche solide. Il sospetto che i rischi superino i benefici, e che in passato si sia troppo spesso messa a repentaglio la salute fisica e mentale di tanti adolescenti, è sempre più diffuso nella comunità scientifica. La ragione di disaccordo più importante riguarda però un altro aspetto, sociologico e giuridico. Contrariamente a quanto molti credono, l’affermazione per legge di determinati diritti per determinati gruppi può andare a scapito dei diritti e delle prerogative di altri gruppi. Il caso più clamoroso è quello delle donne, i cui diritti e conquiste verrebbero gravemente compromessi dalle transizioni nominali (senza operazione chirurgica) da maschio a femmina, i cosiddetti passaggi MtF. È già successo con i detenuti biologicamente maschi che pretendono di essere ospitati nei carceri femminili (con numerosi casi di stupro). È già successo con gli atleti maschi che pretendono di gareggiare nelle competizioni femminili, sbaragliando le atlete biologicamente donne. È già successo alle elezioni, con i candidati maschi che si dichiarano femmine, e occupano posti che le quote rosa intendevano riservare alle donne. E naturalmente può succedere, più in generale, ovunque alle donne la prassi e il buon senso riservino spazi propri, preclusi ai maschi, come nei bagni, negli spogliatoi, nei centri anti-violenza.
In breve, il problema è che, se il self-id viene introdotto sul serio, ovvero se un maschio che si percepisce femmina può accedere a tutti i diritti che la legge e i regolamenti riservano alle donne-donne, queste ultime non possono che vedere gravemente compromesse tante loro conquiste, a partire dalle quote ad esse riservate in determinati concorsi, nei consigli di amministrazione, nelle competizioni politiche, per non parlare della miriade di sussidi e benefici pensati per migliorare la condizione femminile. Ecco perché una parte del mondo femminile, anche progressista, è a suo tempo insorto contro ddl Zan, e vede come fumo negli occhi le leggi che, in vari paesi europei, hanno introdotto o stanno introducendo il self-id. Ed ecco perché un paese come la Scozia, che ha sperimentato una legge sul self-id, sta precipitosamente facendo marcia indietro.
Per concludere. Quello sul self-id non è uno scontro di civiltà, ma un normale conflitto sociale e culturale. Entrambe le soluzioni – accettare o rifiutare il self-id – hanno le loro buone ragioni e i loro inconvenienti. La scelta non è fra l’oscurantismo dei paesi di Visegrad e l’illuminata saggezza dei paesi europei occidentali. Se non altro perché la Polonia (che ha firmato), è uno dei quattro paesi di Visegrad, e il Regno Unito (che respinge risolutamente il self-id), è la culla della civiltà liberale.
Dobbiamo rassegnarci: certi dilemmi non si risolvono con la ragione, ma con il confronto aperto fra cittadini che la pensano diversamente. È anche a questo che serve la democrazia.
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