Si sa che la giustizia non si produce da sola, ma se la imponi ottieni solo ingiustizia. È la lezione senza eccezioni di socialismi reali e nazionalsocialismi, di fascismi e comunismi.
Si sa anche che senza la libertà non c’è giustizia, ma da sola la libertà non produce giustizia.
Giustizia fa pensare a pace, ma pax opus iustitiae (la pace è opera della giustizia) sta lì a ricordare che la mancanza di guerre e conflitti è una specialità dei tiranni vittoriosi: chi più di loro è capace di non far volare una mosca e di tenere tutto in ordine? Cercare la giustizia non di rado esige di “fare la guerra” alla pace dei tiranni (dei loro complici e dei loro lacchè).
Ad assolvere al dovere della giustizia non è sufficiente neppure una grande generosità individuale. La giustizia richiede anche di edificare e mantenere strutture collettive presidiate da poteri abbastanza forti da proteggere i diritti dei deboli.
Strana cosa la giustizia. Puoi farla crescere a livello globale in modi che però la incrinano a livello locale o, al contrario, può capitare che riesci a farla crescere in un luogo epperò in modi che ne scaricano i costi su chi vive fuori da quel luogo. Esempi? Negli ultimi decenni un miliardo di persone è uscito dalla povertà a livello globale, ma questo stesso processo ha fatto regredire il ceto medio delle società avanzate. E ancora: sino alla metà del secolo scorso non pochi imperi coloniali avevano al loro cuore società assai più giuste di quelle che opprimevano.
Brutt’affare la giustizia, e per giunta affare sempre più urgente. Oggi la giustizia è stretta nella morsa di una orribile tenaglia. Da una parte il terrorismo minaccia i diritti di milioni di persone ed a questa minaccia si aggiungono le aggressioni e le oppressioni di cui sono protagonisti gli stati autoritari; d’altra parte le diseguaglianze spingono i poveri sempre più lontano dai ricchi e, come se non bastasse, trasformano quote sempre più grandi dei ceti medi in schiere di nuovi poveri.
Negli ultimi mesi i discorsi di un numero sempre maggiore di leader e di analisti hanno assunto toni da tempo inauditi allo scopo di risvegliare la pubblica opinione ed i decisori di ogni campo alle ragioni della giustizia, alla giustizia come compito, alla giustizia come dovere che richiede l’umiltà di correggersi e la fatica di tener duro.
Di fronte alle ingiustizie delle aggressioni militari e della crescita di spaventose diseguaglianze, alla causa della giustizia non bastano auspici, sentimenti ed intenzioni. Né solo preghiere, se prestiamo fede a quel Dio che pure chiede di pregare sempre: infatti «non chi dice Signore, Signore …» (Mt 7, 21). Alla causa della giustizia serve anche forza, intelligenza e responsabilità. Responsabilità: capacità di ascoltare chi parla dall’ultima fila e di cambiare direzione di marcia. Intelligenza: scegliere parzialità per correggere altre parzialità. Forza: per vincere la paura del confronto e della lotta. La giustizia è dovere. La giustizia parla una lingua di cui molti hanno dimenticato la grammatica del coraggio, la sintassi dell’etica e la semantica della speranza.
Potrebbero sembrare pensieri poco pasquali. Strano, perché quella che a Pasqua si celebra od almeno si ricorda è la vittoria sul male di cui l’uomo è capace e sulla morte di cui l’uomo è schiavo, vittoria da parte di un Dio che ha privato di ogni forza i principati e le potestà di questo mondo, che li ha pubblicamente irrisi (cfr. Colossesi 2, 15). Vittoria giunta al termine di uno Shabbàt, divina protesta contro schiavitù e oppressione (cfr. Deuteronomio 5, 14), al termine di un Sabato passato da Cristo a infrangere persino le catene degli inferi (Isacco di Ninive).
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