Morto in carcere a Cassino, scagionati medico e infermiera

Il caso di Mimmo D'Innocenzo. Il farmaco letale ceduto da un altro detenuto, ora rinviato a giudizio

Il carcere di Cassino
di Roberta Pugliesi
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Venerdì 26 Gennaio 2024, 07:09

LA STORIA

Morto in carcere per intossicazione dopo aver ingerito alcune pasticche di un farmaco simile al metadone, si chiude dopo quasi otto anni l'incubo giudiziario per un medico e un'infermiera che era stati accusati di aver iniettato il medicinale. In realtà, come emerse da subito, il farmaco era stato ceduto da un altro detenuto, ora rinviato a giudizio. I due operatori sanitari erano completamente estranei alla vicenda.

LA VICENDA

Tutto ha inizio il 27 aprile del 2017 quando nel carcere di Cassino muore Domenico d'Innocenzo, per tutti Mimmo, che al tempo si trovava ristretto in regime precauzionale per autolesionismo, in stato di isolamento. Vennero avviate immediatamente le indagini interne ed emerse che il romano aveva assunto alcuni giorni prima il farmaco consegnatogli da un altro detenuto, Paolo Ciardiello, in cambio di alcuni pacchetti di sigarette. Ciardiello aveva ceduto il farmaco calandola con una corda dalla cella sovrastante. Il fatto era stato accertato perché pochi giorni prima che morisse D'Innocenzo, venne redatto un rapporto disciplinare a carico suo e di un altro detenuto, responsabili di passaggio di materiale attraverso l'uso d una corda rudimentale fatta di strisce di vari tessuti. Corda che venne trovata nella cella della vittima dopo la sua morte.
Nel registro degli indagati però finirono anche il medico Raffaele Lezoche di Roma e l'infermiera Elena Colafrancesco di Cassino, all'epoca dei fatti in servizio presso l'infermeria della casa circondariale. Secondo l'ipotesi dell'accusa i due operatori sanitari erano responsabili di aver iniettato il farmaco al detenuto. Accusa che, si legge nelle carte del procedimento, si basava su una «parziale» lettura della relazione di consulenza medico-legale e sulla scorta di una «controversa» deposizione testimoniale resa da un agente di polizia penitenziaria. Ma sul registro dell'infermiera non vi era traccia alcuna di quanto riferito dall'agente. E dalla successiva relazione medico-legale non emersero altri riscontri. L'agente di polizia penitenziaria inoltre era stato indicato come «una fonte di prova inattendibile», si legge è la sua deposizione è rimasta priva di riscontro nonché isolata.
Sulla base di questi elementi il gip del tribunale di Cassino, Massimo Lo Mastro, ha disposto l'archiviazione per medico e infermiera per non aver commesso il fatto, e il rinvio a giudizio per il detenuto Paolo Ciardiello, campano, che consegnò il medico alla vittima.

LE REAZIONI

«Mi sento provata da quasi otto di indagini a mio carico, lesa nella mia immagine e professionalità», dichiara l'infermiera di Cassino. «In questi anni - prosegue - mi sono sentita in difficoltà nei confronti di chi mi guardava e giudicava perché ero indagata per un reato gravissimo, pur non essendo responsabile di alcunché. Mi auguro che nessun altro debba più sopportare quanto ho dovuto subire io».
L'infermiera di Cassino è stata difesa dagli avvocati Federica Lancia e Francesco Germani, i quali dichiarano: «Pur trattandosi di una vicenda molto dolorosa e pur comprendendo il dolore di una madre, a cui esprimiamo vicinanza, riteniamo che per la nostra assistita sia stata fatta giustizia riconoscendone l'estraneità ai fatti. Siamo quindi soddisfatti del provvedimento di archiviazione emesso dal gip. La nostra assistita ha sempre avuto fiducia nella giustizia, con la consapevolezza di aver agito secondo la propria deontologia professionale. Ma sono stati comunque anni faticosi e di sofferenza».
Roberta Pugliesi
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