Magistrati e politica/ Fermare le porte girevoli per le toghe

di Carlo Nordio
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Domenica 19 Marzo 2017, 00:39
È necessario, come recita il Vangelo, che gli scandali avvengano? Sì, talvolta è proprio necessario. Perché solo gli scandali fanno emergere situazioni che, nella generale pigrizia riflessiva, si sviluppano e si consolidano fino a diventare malattie mortali. Questo accade quando i diritti dei cittadini non sono oggetto di un'aggressione violenta, ma di un deterioramento progressivo e insidioso: cosicché, alla fine, si affievoliscono e muoiono in silenzio.
La separazione dei poteri è uno dei cardini della democrazia parlamentare. Eppure, mentre tutti riterrebbero inconcepibile che un senatore o un ministro volesse fare il giudice, abbiamo sempre accettato che un giudice diventasse ministro o senatore: e, cosa ancor più bizzarra che, cessata la carica, potesse, e possa, riprendersi tranquillamente la toga. È un esempio di come ci dimentichiamo, quasi senza pensarci, delle più elementari regole di convivenza civile.

Ora apprendiamo, con parziale sollievo, che domani il Pd porterà in aula un disegno di legge che dovrebbe disciplinare questo andirivieni dei magistrati. Il sollievo è parziale, perché il progetto non esclude del tutto questo insano viavai. Per di più interviene dopo la vicenda Minzolini, e non è mai bene che una legge sia associata, a torto o a ragione, a una vicenda individuale. Incidentalmente, aggiungo che ho sentito una nota giornalista affermare che l'avvocato del senatore avrebbe potuto ricusare il suo giudice e che, non facendolo, lo aveva accettato, ancorché avesse militato in un partito avversario.
E questa è un'altra dimostrazione del dilettantismo con cui si affrontano questi problemi: perché le ipotesi di ricusazione sono tassative, e tra queste non rientra la pregressa carica politica del giudicante. Ma torniamo al problema di fondo.

Le ragioni che dovrebbero escludere l'ingresso delle toghe in politica, più ancora che formali sono sostanziali, e riguardano soprattutto i magistrati che hanno acquisito notorietà, e magari prestigio e stima, conducendo inchieste che hanno coinvolto politici. Primo, perché questa precedente attività si presta a una rilettura a dir poco maliziosa: quel giudice si è dato da fare per procurarsi una poltrona. Secondo, perché altera in modo sleale le posizioni di partenza: un magistrato fotografato, intervistato e omaggiato dalla stampa e dalla Tv parte avvantaggiato rispetto a un fedele e sconosciuto militante di partito. Terzo, perché è quantomeno poco elegante ambire al posto di un signore che magari il magistrato ha inquisito o condannato.

Queste ragioni si ripresentano, moltiplicate, per il percorso inverso, quando cioè il giudice pretende di rientrare nelle sue funzioni dopo aver fatto politica attiva. Nessuno dubita, e ci mancherebbe altro, che sia condizionato da pregiudizi ostili verso eventuali imputati di idee opposte. Può anche darsi il contrario: che, per eliminare ogni eventuale retropensiero, il giudice si imponga un eccesso di scrupoli e decida in modo troppo indulgente. Ed è proprio questo il punto: che indipendentemente dall'esito del giudizio, il fatto che un ex politico giudichi un politico in carica è una vera e propria mostruosità logica e civile. Per questo auspichiamo che il provvedimento che andrà in discussione domani sia più coraggioso, ed escluda totalmente questa giostra. Solo per farci ricordare che esiste ancora il principio della separazione dei poteri. Prima, appunto che ce ne dimentichiamo. E prima che, dimenticandocene, lo perdiamo per mancato esercizio e per 
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