Il ricorso alla Consulta/ Uno spiraglio sul diritto a decidere sul fine vita

di Cesare Mirabelli
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Giovedì 15 Febbraio 2018, 00:40
La Corte d’assise di Milano ha aperto a tutto campo le questioni giuridiche poste dalla pratica del suicidio assistito, chiedendo che su di esse si pronunci la Corte costituzionale. Il punto di partenza è l’applicazione dell’articolo 580 del codice penale, che considera reato la «istigazione o aiuto al suicidio», e prevede la reclusione da cinque a dodici anni per chiunque «determina» altri al suicidio o ne rafforza il proposito, ovvero «ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione».

L’oggetto del giudizio riguardava proprio quest’ultimo aspetto, non la istigazione ma l’agevolazione addebitata a Marco Cappato nel caso della morte di dj Fabo, da lui condotto in Svizzera. La Corte d’assise di Milano non segue una interpretazione restrittiva della norma penale, di recente adottata da altri giudici di merito per escluderne l’impatto su comportamenti di “agevolazione” ritenuti ininfluenti sulla volontà e sulla attività suicida. Pur non condividendola, preferisce attestarsi sulla più rigorosa giurisprudenza della Cassazione.

La quale considera punibile qualsiasi forma di aiuto o agevolazione in qualsiasi modo realizzato, per sottoporre la norma penale al giudizio della Corte costituzionale, con una motivazione che l’ordinanza letta in udienza sviluppa nei termini più ampi. Esiste e trova espressione costituzionale il diritto dell’individuo di determinarsi come e quando porre fine alla propria esistenza? Se si afferma questo diritto, agevolarne la esecuzione non potrebbe essere sanzionato, se non si incide sul percorso di formazione della volontà e deliberativo, mentre resterebbe punibile la istigazione.

Nella prospettiva dell’ordinanza, la libertà di decidere della propria vita sarebbe assoluta e si manifesterebbe in ogni aspetto . Non solo, quindi, il diritto di non curarsi, di rifiutare trattamenti sanitari e di interrompere le terapie. Questo è già garantito e trova espressione nella recente legge sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento. Di fronte alla rinuncia o al rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla sopravvivenza, il medico prospetta al paziente le conseguenze di questa sua decisione e promuove ogni azione di sostegno, ma ne rispetta la volontà. In caso di prognosi infausta a breve termine può ricorrere alla sedazione palliativa profonda associata alla terapia del dolore, ma secondo la legge attuale, non può provocare direttamente la morte, che sopravviene naturalmente.
L’ordinanza della Corte d’assise ritiene che si debba andare oltre, con il diritto a decidere della propria morte, come atto di libertà individuale sganciato da qualsiasi condizione. Pur proponendo la questione in termini così ampi ed assoluti, l’ordinanza sembra voler suscitare l’intervento del legislatore per proteggere le persone vulnerabili, assicurare la libera formazione della volontà, richiedere una indagine rigorosa dello stato mentale, oltre ad offrire informazioni e alternative destinate tuttavia a non sovrapporsi alla volontà della persona. 

Si può dubitare della idoneità delle disposizioni costituzionali e della convenzione europea sui diritti dell’uomo, richiamate dall’ordinanza, a sostenere la costruzione offerta dall’ampia motivazione: diritto alla vita, libertà personale, diritto al rispetto della vita privata. Su questo non mancherà un dibattito che consenta l’approfondimento che richiede una questione così delicata, e consente la preparazione della discussione che si annuncia dinanzi alla Corte costituzionale.

Nelle sue conclusioni l’ordinanza si limita a due richieste di minore portata. La prima è che la illegittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale riguardi le condotte di aiuto al suicidio a prescindere dal loro contributo al rafforzamento o al proposito suicida, e si pone così una questione che il giudice avrebbe potuto risolvere con una propria interpretazione. La seconda è che la pena della reclusione è prevista nella stessa misura per comportamenti di diversa gravità, quali la istigazione al suicidio e le condotte di agevolazione al suicidio, le quali non incidano sul percorso deliberativo dell’aspirante al suicidio. È evidente che si lasciano larghi spazi per soluzioni nelle quali può prevalere una ragionevole misura.
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