Ma perché la Cancelliera (che non ha mai pensato di rivolgersi alla destra estrema di AdF) ha affrontato la difficile fase delle trattative accettando di discutere sia il programma che la composizione dell’esecutivo. Solo su questa base ha potuto aprire i colloqui con gli altri partiti. Per il momento, invece, i Cinque Stelle hanno evitato di compiere passi in una simile direzione, ripetendo fino alla noia che gli elettori hanno votato insieme un partito, un capo politico, un programma e una squadra di governo. Come se, per ottenere l’appoggio di altre forze politiche, dovesse bastare la minaccia di nuove elezioni, minaccia alla quale sarebbero sensibili, in particolare, i partiti usciti sconfitti dal voto, Pd in testa. O come se il Movimento non avesse davvero tutta questa voglia di governare, soprattutto dovendo pagare il prezzo di faticosi accordi e difficili compromessi, così indigesti alla base originaria del grillismo. (Voglia e, aggiungerei, cultura politico-parlamentare). Chi però sin qui qualche passo lo ha compiuto è Salvini. Anzitutto nella scelta dei Presidenti delle due Assemblee. Salvini ha accettato di sostenere la candidatura di un pentastellato alla Camera e di lasciare strada al candidato di Forza Italia al Senato, per non rompere la coalizione di centrodestra ancor prima di cominciare a giocare la partita sul governo.
Questo nell’ipotesi, confermata nelle ultime ore, che cada il nome di Paolo Romani, su cui i Cinque Stelle hanno puntato i piedi. Il leader della Lega ha poi tirato una riga in mezzo al campo: i voti non li cercherà dalle parti del Pd. In questo modo, ha da un lato impedito a Forza Italia di smarcarsi, facendo cadere tutti i ragionamenti intorno a una possibile “grande coalizione” con i democrat, e ha dall’altro mantenuto la rappresentanza dell’intero centrodestra. Non è detto che questo basti a mettere su un Esecutivo con i Cinque Stelle, ma basta a portare avanti l’eventuale trattativa da posizioni di maggiore forza e rappresentatività. Che anche il Capo dello Stato, al momento del conferimento dell’incarico, non potrà non considerare. Berlusconi, per parte sua, non può non tenergli il gioco: vuoi perché in cambio ha ottenuto la Presidenza del Senato, vuoi perché ha il sacro terrore di nuove elezioni, vuoi infine perché può sempre sperare che a toglierlo da ogni imbarazzo siano proprio i Cinque Stelle, che un governo con un condannato in via definitiva molto difficilmente potranno mandarlo giù. Così si potrebbe tornare daccapo, almeno negli auspici del Cavaliere: a un governo di scopo, del Presidente, o come altrimenti lo si voglia chiamare, con dentro tutti (o nessuno).
A quel punto, però, le ultime ambiguità dovranno cadere.
Salvini, dal canto suo, dovrà decidere se andare comunque avanti, spingendosi nella terra incognita di un accordo coi Cinque Stelle anche a costo di spaccare il centrodestra. Di Maio, dall’altro canto, che avrà atteso il più possibile movimenti (e sommovimenti) in casa Pd, sarà probabilmente dinanzi al dilemma se Palazzo Chigi val bene una messa, se vale cioè il completamento della trasformazione del M5S in una forza di sistema, che accetta di dare un governo al Paese rinunciando almeno in parte a certe pregiudiziali, o se invece gli converrà tuffarsi verso il voto anticipato. Fin lì, e non oltre, Di Maio potrà tenersi aperte tutte le vie. Dopo, il dado sarà tratto, e non potrà che avere una faccia sola.
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