Duello con l’Europa/La carta deficit va garantita dalla crescita

di Paolo Balduzzi
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Mercoledì 16 Maggio 2018, 00:05
Mentre sono in stallo le trattative sul nuovo governo, vola indifferente delle nostre difficoltà il debito pubblico italiano. E raggiunge il record di sempre, a quota 2.302 miliardi, sollecitando i richiami delle istituzioni europee e degli osservatori internazionali rispetto alle conseguenze che un eventuale governo Cinquestelle-Lega potrebbe dare al Paese. Richiami utili, per i quali sinceramente ringraziamo, ma che non possono e non debbono interferire sulla dinamiche democratiche del nostro Paese. 


Ci sono partiti che hanno guadagnato decine milioni i voti, facendo promesse che sono state apprezzate da circa il 50% degli elettori e che quindi, piacciano o non piacciano queste promesse, è giusto che ora si misurino con la sfide di governo e siano messe alla prova. Certo, non si può negare che l’impatto finanziario di tutte queste promesse – se mai fossero davvero mantenute - possa essere fortemente problematico per le finanze pubbliche: stiamo infatti parlando di riduzione del carico fiscale (flat tax), rilassamento della riforma Fornero, potenziamento del reddito di inclusione (erroneamente chiamato “di cittadinanza”). Ma è evidente che la scommessa di Lega e Cinquestelle sta tutta nelle conseguenze economiche di queste stesse misure anche sulla crescita. Del resto, la preoccupazione principale di Bruxelles e degli investitori internazionali (nonché di quelli nazionali) è indirizzata non tanto al livello del debito quanto al rapporto tra esso e il Pil: non a caso i due partiti in fase di accordo puntano sugli effetti che le loro misure possono avere sul denominatore (il Pil, appunto, cioè la crescita economica nazionale). Altri sono invece preoccupati dell’impatto di queste misure sul numeratore, vale a dire il debito. Hanno entrambi ragione; o hanno entrambi torto. L’approccio corretto è invece di guardare a tutti gli aspetti e a tutte le conseguenze della politica economica di un paese. 

Finanziare la crescita costantemente in deficit può avere effetti di breve periodo, ma certamente porterà a conseguenze di medio-lungo periodo che non possono essere ignorate. Per gli scettici, o coloro che volessero un esempio di tutto ciò, basti pensare che la montagna di debito pubblico italiano si è sostanzialmente formata nel giro di soli 15-20 anni, tra gli anni ’70 e ’80 del secolo scorso. Bilanci drogati da pochi investimenti e da eccessive spese correnti, finanziati al 70% in deficit e il cui conto lo stiamo pagando ancora oggi. Su questa illusione del debito è giunto il momento di fare qualche severa riflessione, e non certo perché ce lo chiede l’Europa, ma perché ce lo chiedono le generazioni più giovani e soprattutto quelle future, condannate a un presente di forte incertezza e a un futuro di possibile povertà se continueremo a giocare con i conti pubblici. D’altro canto, nemmeno possiamo continuare a considerare un tabù lo sforamento degli obiettivi di medio termine del paese, vale a dire degli obiettivi di deficit stabiliti in sede europea. 

A onor del vero, il nostro Paese negli ultimi anni ha già ottenuto, a pieno titolo, zone di flessibilità che hanno permesso di sforare l’obiettivo di deficit. Probabilmente proseguire – anzi migliorare – questa strada vuole dire sia aumentare gli investimenti pubblici, vero motore dello sviluppo, sia mantenere una rotta ferma e risoluta verso la riduzione del debito nel medio-lungo periodo. Nessuno di noi può pensare di comprare un casa più grande senza indebitarsi, nessuna attività economica può pensare di ingrandirsi senza ricorrere a finanziamenti esterni; e così il nostro paese. Ricorrere al deficit è possibile: ma diventa fondamentale la scelta sul cosa fare di queste risorse: spenderli per mantenere un forte consenso elettorale presente, in perfetto stile della peggiore prima repubblica, o offrire una nuova prospettiva di sviluppo, forse partendo proprio dal Sud? 
Offrire infrastrutture e servizi dove mancano, e quindi chiedere uno sforzo da parte dei cittadini per concorrere a creare ricchezza, o semplicemente trasferire risorse nell’attesa che prima o poi qualcuno crei lavoro? La risposta a queste domande segnerà un passaggio fondamentale per la nostra storia e il nostro benessere: sapremo quindi se dalla Seconda Repubblica passeremo alla Terza oppure se, mestamente, non faremo altro che perdere decenni di storia e tornare ai peggiori anni della Prima. 
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