Enrico Montesano: «Così il conte Tacchia è diventato un paisà»

Enrico Montesano: «Così il conte Tacchia è diventato un paisà»
di Katia Ippaso
4 Minuti di Lettura
Martedì 13 Febbraio 2018, 00:00 - Ultimo aggiornamento: 25 Febbraio, 22:39

L’avevamo lasciato in una piazza di Trastevere dei primi anni del ‘900. Dopo essere sfuggito a un matrimonio combinato, a un duello con uno spadaccino francese e alla guerra in Libia, il conte Tacchia di Enrico Montesano si preparava a partire per l’America assieme alla sua Fernanda. Lo ritroviamo a Roma nel 1944, tra le truppe americane venute a liberare l’Italia. Nato nel 1982 come personaggio del grande schermo (regia di Sergio Corbucci), Francesco Checco Puricelli, anche detto Conte Tacchia, oggi si trova catapultato in teatro. Ha qualche anno in più, ma il suo sorriso innocente e la sua ossessione per l’araldica non sono cambiati. «Dopo Rugantino e Il Marchese del Grillo, volevo completare un’ideale trilogia su Roma», racconta Enrico Montesano, protagonista de Il conte Tacchia, commedia musicale scritta con Gianni Clementi, che debutterà in prima nazionale al Teatro Sistina di Roma il 21 febbraio.
 


Perché è così affezionato al conte Tacchia?
«Attraverso le sue avventure e il suo sguardo raccontiamo una Roma che non c’è più. Francesco Puricelli ora è Frank Puricelli, sergente dell’esercito americano, un “paisà”. Rispetto al film, abbiamo salvato alcune parti salienti, ma il testo è nuovo. Oltre alla canzone ‘Nsai che pacchia del maestro Trovajoli, musicalmente si va dal ragtime al boogie-boogie passando anche per un valzer».

Nel frattempo Checco e Fernanda si sono sposati?
«Non posso rispondere. Non lo so neanche io. E poi se le dico tutta la trama...». 

I personaggi di questa storia sono quasi favolistici.
«Non è certo una Roma aspra né greve, semmai dura, perché racconta le difficoltà del popolo. A me piace quel tono gentile del racconto, ormai si narrano solo Suburre e Gomorre. Avendo vinto tre David di Donatello, faccio parte dell’Accademia dei David e vedo molti film. Lo sa che in uno di questi si sniffava cocaina ben 12 volte? Le ho contate. Ecco, mi sono stancato».

A differenza di altri dialetti che conservano una dignità teatrale e letteraria, il romanesco si è impoverito.
«È vero, ed è per questo che abbiamo voluto fare una ricerca filologica che ci permettesse di usare una lingua bella, alta. Una lingua “aulica”: non so che vuol dire, ma mi piace dirlo».

Nel film di Corbucci, tutti leggono “Il Messaggero”.
«Anche nella commedia, passa continuamente lo strillone: “Il Messaggero! Il Messaggero!” E tutti lo comprano e commentano gli articoli a voce alta. Nel 1910, come nel 1944, le notizie a Roma si leggevano solo sul vostro giornale. Sul mio comodino ho una pila di libri di Roma, e tra questi c’è Il Messaggero e la sua città di Giuseppe Talamo, volume primo. Me lo regalò Giovanni Spadolini. L’altra sera mi sono messo a leggere un’inchiesta del 1880 sugli ospedali di Roma. Questo vuol dire che solo dieci anni dopo la presa di Roma, Il Messaggero era già un giornale che si occupava seriamente della città». 

Lei è ancora impegnato politicamente?
«Non ci penso proprio».

Però lo è stato.
«Sì, nel periodo dell’illusione collettiva. Ho cominciato nel ’77 e allora c’erano ancora quelle belle feste dell’Avanti e dell’Unità. Dal ’93 al ’95 sono stato consigliere comunale per il Pds. Ma non è servito. Non serve che al consigliere arrivino delle proposte già deliberate! Nel 1996 mi sono dimesso da parlamentare europeo rinunciando al vitalizio». 

Andrà a votare?
«Scriva pure: segue un lungo silenzio». 

Quando non lavora, cosa fa?
«Io sono affetto da quello che i latini definivano una sana “curiositas”. Qualunque argomento mi interessa e cerco di approfondire». 

La Roma di oggi che sentimenti le suscita?
«La amo ancora moltissimo: mi piace andare a piedi e in bicicletta. Ma bisogna dire che Roma è diventata “una città bancomat”, come la chiama Francesco Erbani. È una terra di conquista. Nessuno la rispetta. Rispettarla significa curarla, significa avere un’idea di città. Insomma, aridateci Petroselli!».

Come vive la notorietà?
«Perché, lo sono? L’altro giorno l’assistente del barbiere mi ha detto: “Lei ha una faccia conosciuta, qual è il suo nome?”».

E lei cos’ha risposto?
«Adriano Celentano». 

© RIPRODUZIONE RISERVATA