Fabrizio Ferri: «Aprite la mente, i sensi sono sette»

Fabrizio Ferri: «Aprite la mente, i sensi sono sette»
di Alvaro Moretti
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Domenica 8 Luglio 2018, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 26 Luglio, 13:44
Cesare affiora, a Pantelleria. E Fabrizio Ferri, che nell’isola è autorità e presenza, dammusi e vita quotidiana, ha la macchina per fermare l’attimo e consegnarlo – anni dopo – a Ferrara e al Festival dei Due Mondi per un manifesto che è icona. Quel bellimbusto che emerge dall’acqua che pare oro è di questo fotografo romano che partendo da piazza San Giovanni ha lasciato opere e segni a Milano, Londra, New York, Pantelleria con un sogno-missione che riguarda la sua città, Roma.

Che effetto ha usato, Ferri, per quel Cesare esposto ovunque?
«Una nuvola».

Lei è uno di quelli che muove anche le nuvole, sui set fotografici?
«No, passava: dall’Africa su Pantelleria direzione Italia. Scoprono il busto in una cisterna, mi chiamano e chiedono la foto. Poggiamo il pesantissimo capoccione nell’acqua, in sospensione, emersione. Passa questa nuvola carica di sabbia del Sahara. Ecco, l’acqua dorata è luce di sabbia».

Nella mostra personale di Palazzo Racani Arroni, proprio al Duomo spoletino, ritratti che sono il punto d’arrivo di una carriera lunga quasi 50 anni: ha girato il mondo, ha conquistato il mondo della moda e della pubblicità. New York è casa, ormai. Ma Roma, Roma cos’è per Fabrizio Ferri?
«Amore e voglia di restituzione. Voglio restituire qualcosa che rimanga alla mia città, la città del mio primo scatto, quando non immaginavo di poter diventare un fotografo, quando ero un musicista (lo sono ancora, e anche chef). Il prossimo progetto per me e Industria, la mia azienda, è in Italia. E proprio nel posto dove mi dicono tutti di non fare le cose che “tanto ti metteranno i bastoni tra le ruote e dicono no a tutto”… L’Università dell’Immagine, dopo l’esperienza milanese, io voglio aprirla a Roma e a Roma nascerà. Un luogo non accademico di ricerca del percorso della creazione. Non creatività, per carità: lavoro in pubblicità e quello è il percorso che vogliono farti fare i committenti».

Un creatore, dunque…
«Io metto a fuoco da una vita: cose, facce, sguardi. È il tempo di mettere a fuoco un vuoto. Che è il percorso della creazione: vedere o riuscire a far vedere quello che ancora non c’è. Una scuola in cui i fotografi e gli altri specialisti si confrontino con teologi e fisici. Quando fotografi ritratti, se non sei un creativo, ti lasci anche andare al flusso di emozioni che la persona davanti a te trasmette, senza che tu te ne accorga magari. Ma poi, sulla foto, la trovi. Nella foto di Cesare del manifesto di Spoleto, dopo anni, ho cominciato ad intravedere un volto in trasparenza. Mi allontano dalla foto e lo scopro: c’è un fantasma in quella foto».

Beh, in effetti – gli diciamo mentre guardiamo l’opera – sembra una donna raffaelliana.
«Ognuno vede qualcosa di diverso: io non lo vedevo e invece c’è».

Torniamo all’Università.
«I fisici più moderni stanno studiando lo spirito, dal punto di vista scientifico. E certe opere non riescono se i sensi non cominci a considerarli almeno sei, direi sette».

In che senso?
«Che memoria e intuito sono quello che ci proietterà nel 5D».

Posso riportarla alla prima foto?
«Mai presa in mano una macchinetta, mi faccio prestare una Contax da mio zio. Il primo maggio, piazza San Giovanni. Vado e non so che fare: incontro un fotografo. Scoprirò poi che era Vezio Sabatini, un mito. Mi spiega come muove la ghiera dei tempi e mi dice da lontano: buona fortuna. Me la comprò Paese Sera la prima foto fatta: 50 lire. Non mi pareva vero. È stata una delle mie foto più pubblicate: più degli scatti con Sting o Pavarotti, delle campagne coi grandi marchi del lusso (con le star di Hollywood e Bulgari ha raccolto 60 milioni per Save The Children, ndr). In quella foto c’era un contadino che guardava Lama parlare, suo figlio sulle spalle che poggiava il mento sulla testa, la moglie con il capo sulla spalla del capofamiglia. Tre teste, una visione, una famiglia. All’epoca non esistevano fotografie di costume politico: si parlava sui giornali di studenti, ma nessuno li fotografava nella loro vita quotidiana. Feci uno scatto a mia sorella curva sui libri, con una luce da abbaino: la vendetti per anni. In quelle foto c’era il costume politico: tutti ne parlavano, nessuno scattava».

A Spoleto alcune foto molto simboliche.
«Bolle materico che si confonde con un muro pompeiano. Ma il tema di fondo è l’affioramento, l’emersione: dello spirito delle star che fotografo senza grandi trucchi. Non faccio mai girare le ciglia alle modelle, sul set: giri le ciglia, arriva il personaggio e perdi la persona. Non amo i fotografi che costruiscono troppo le immagini seguendo un diktat. Uno è bravissimo a lavorare a tesi, invece: Oliviero Toscani. Ha un pensiero politico, di comunicazione e ti costringe a dibattere di lui, delle sue foto. Ha bypassato i creativi: geniale».

Un esempio da seguire?
«Sarah Moon: arrivo a Londra e negli anni Settanta era tutto rumore, casino. Punk. Lei sceglie l’eleganza, la pulizia della campagna per Biba: grande».

Nella mostra tra i tanti un altro affioramento: un giovanissimo Dijmon Hounsou.
«Lo vedi nel Gladiatore e vedi quel corpo che è l’esplosione di madre natura, così diverso dal nudo di Bolle che è la perfetta costruzione di un corpo attraverso il lavoro e il metodo. Ma lui emerge dall’acqua come emerse da sotto un treno sotto al quale s’era legato con la cintura dei pantaloni per fuggire dal Benin fino a Parigi, poi l’Hollywood. Una foto attualissima, se ci pensiamo su».

Torno su Roma: vista da Londra, Milano, New York, Pantelleria.
«La amo di più, senza il rumore dei social e delle notizie; del giorno per giorno e della rabbia sfusa di Roma; del coro delle lamentele dell’Italia. È nel silenzio che si ama l’Italia e si capisce quanta eccellenza ci sia nell’essere italiani nel mondo: nessun popolo ha una bellezza cosmopolita come il nostro. Nessuno. Per capirlo serve il silenzio e la lontananza. Purtroppo». 
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