Chissà se era proprio questo il concetto da cui due studenti 25enni dell’università di Stanford partirono per mettere su la loro piccola società, che sarebbe poi diventata la più grande al mondo. Era il 4 settembre del 1998 quando l’americano Lawrence “Larry” Page e il russo Sergej Michajlovič Brin fondarono Google Inc., anche se in azienda l’anniversario si festeggia, per convenzione, il 27 settembre, cioè il giorno in cui quello stesso anno fu raggiunto il primo record di pagine indicizzate. E anche se quei due ragazzi non potevano immaginare quali sviluppi incredibili avrebbe avuto la loro invenzione, le geniali aspirazioni erano già contenute in quel nome: “Google”, che viene da “googol”, termine che il nipote del matematico Edward Kasner inventò nel 1938 per riferirsi a un numero rappresentato da 1 seguito da 100 zeri. In pratica, come voler mettere ordine nell’infinita vastità della Rete creando uno strumento con cui trovare quello che si cerca.
I CANNIBALI
Quel che i due ragazzi (oggi miliardari 45enni) riuscirono a fare, è costituire un colosso che attualmente fa parte di un gruppo, Alphabet, che ha chiuso il 2017 con un fatturato di 110,86 miliardi di dollari. E sono riusciti a farlo utilizzando un metodo di espansione che non è esagerato definire cannibalistico. Perché da “semplice” motore di ricerca, Google è diventato il grande filtro del Web, che stabilisce cosa può essere trovato con facilità e cos’altro far scomparire tra le innumerevoli pagine di risultati, e quindi fra le imperscrutabili “pieghe” della Rete.
Il che, in un certo senso, è un concetto che nega i fondamenti stessi di Internet: la libertà assoluta di immettere contenuti e di fruirne. Solo che come in ogni società, anche quella virtuale a un certo punto ha bisogno di qualcuno (o qualcosa) che metta ordine nel caos. Ed è da qui che ha avuto origine il lato oscuro di fenomeni simili. Perché è proprio dal controllo che nasce ogni tirannia.
Google nel corso degli anni ha mutato la sua forma, ingigantendosi sempre di più, sfruttando con un’abilità tanto eccellente da essere quasi diabolica le nuove tecnologie e i loro mille sviluppi. Google è diventata comunicazione con “GMail”, il servizio di posta elettronica più diffuso; si è fatta social network con “Google +” (rapidamente fallito) e poi con “YouTube”; ci ha tracciato la strada con “Maps”, rendendo più semplice orientarsi in città e al contempo seguendo i nostri spostamenti; si è trasformata in browser con “Chrome”, filtro dei filtri che conosce non solo ciò che cerchiamo, ma anche cosa acquistiamo, che gusti sessuali abbiamo, se investiamo in Borsa oppure no, se ci piace il gelato; si è tramutata in “Android”, prendendo possesso della maggior parte degli smartphone al mondo, pur producendone direttamente una piccolissima fetta con i suoi “Pixel”. E ancora, ha preso le sembianze e la voce di “Home”, un assistente virtuale da salotto che sottoforma di speaker è entrato nelle case e che grazie all’intelligenza artificiale comprende e si adatta alle abitudini degli abitanti, appropriandosi di una mole spaventosa di informazioni e dandone in cambio altre, come che tempo farà domani o i risultati in tempo reale delle partite di calcio.
I SERVIZI
Google, al pari di altri giganti del Web come Facebook, ha capitalizzato tutto quello che una sconfinata comunità gli ha, spesso inconsapevolmente, regalato. Compresi i contenuti che invece gratis non sono, quelli protetti dal diritto d’autore. In alcuni casi, come per le news, grazie a quegli stessi contenuti (pagati da altri) si è addirittura trasformata in una società editoriale. Ha sfruttato e si è approfittata, come le altre grandi aziende hi-tech, del vuoto legislativo e fiscale che le istituzioni, proverbialmente lente ad adattarsi ai cambiamenti, hanno colpevolmente lasciato.
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