Quando il recupero è a tempo di record

Quando il recupero è a tempo di record
di Carla Massi
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Mercoledì 25 Aprile 2018, 00:05
Il terzo figlio di Kate e William è nato lunedì scorso intorno alle 13 e solo tre ore più tardi la mamma, vestita, acconciata e truccata, si è presentata ai fotografi accanto al marito e con il bimbo in braccio. Un abito largo rosso fuoco, scarpe con tacco fino alto quasi dieci centimetri. Una degenza lampo perché di casa reale? Un obbligo per mostrare al mondo che tutto era andato bene?
Domande che le donne inglesi non si sono quasi poste dal momento che lì, in Gran Bretagna, dopo il parto si lascia l’ospedale anche in giornata. Al massimo il mattino dopo. Visto che, come prevede il servizio sanitario inglese, l’assistenza a mamma e bimbo si trasferisce a casa. Lontano dalla corsia. Ovviamente se non ci sono stati problemi e non è stato fatto il cesareo.

Stessa procedura in Germania, Olanda e Paesi del Nord. In Francia e in Spagna, come da noi, i giorni di ricovero sono due, al massimo tre. Ma, a casa, da noi, nessuno poi bussa per sapere se tutto procede come deve. Che significa niente infezioni, niente emorragie, allattamento al seno regolare.

UNA NOTTE
Nel caso di questo terzo figlio la permanenza di Kate in ospedale è stata più breve di quanto non sia successo per gli altri due: per George è rimasta la notte dopo il parto e per Charlotte ha salutato i medici a distanza di dieci ore dalla nascita.

Da noi, i giorni medi di degenza sfiorano i quattro-cinque, perché è molto alto il numero dei cesarei. L’intervento chirurgico, infatti, allunga anche fino a sei giorni la permanenza in ospedale. Circa un terzo delle italiane viene sottoposta a cesareo. Il parto naturale e la giovane età della madre possono permettere di alzarsi entro un’ora, camminare e tenere in braccio il bambino. Il cesareo, ovviamente, no.

C’era un tempo, ricordano i ginecologi, in cui le donne avevano le contrazioni mentre ancora erano nei campi, partorivano in casa e la sera preparavano la cena per tutti nel casale in campagna. Per fortuna, oggi, quei tempi non ci sono più. Ma, ovunque, nell’ultimo decennio si è lavorato per accorciare le giornate di ricovero dopo la nascita. Per superare il modello del parto medicalizzato. Una medicalizzazione, guardiamo la parte positiva della medaglia, che ha drasticamente abbassato la mortalità infantile al momento della nascita e permesso a molte donne con problemi di salute (come un tumore pregresso) di poter avere un figlio.

LE DOGLIE
«Non possiamo avere nostalgia per il tempo che ben descriveva il film L’albero degli zoccoli di Olmi - commenta Claudio Crescini vice segretario dell’Aogoi, l’associazione che riunisce i ginecologi ospedalieri - ma è certo che un parto naturale, quando è possibile, permette di stare abbastanza bene in meno di ventiquattro ore. Come ha fatto Kate? Chiedetelo a tutte le donne che hanno partorito almeno tre figli. Il terzo diventa una sorta di “passeggiata”. Le doglie sono veloci e l’uscita è meno difficoltosa. Ecco perché l’abbiamo vista così. Anche se a tutti noi ha fatto un po’ effetto vederla così pronta alla prova dei fotografi».

Come dire che il ruolo l’ha, in qualche modo, costretta all’immagine oscurando l’intima emozione di una madre. «Da noi l’età media delle donne che partoriscono per la prima volta sfiora i trentadue anni - aggiunge Crescini - Sono sempre di più le quarantenni che arrivano al parto con la procreazione assistita. Quindi il cesareo è obbligatorio. Ma non si può non rendersi conto che il ricorso al bisturi è esagerato. Oltretutto le ricerche ci stanno dimostrano che il bimbo venuto al mondo con il cesareo è più suscettibile ad asma e diabete. Ricordiamo che nella maggior parte dei Paesi europei si può dimettere la paziente con il bimbo in ventiquattro ore perché si sa che non resterà mai sola. Dal giorno dopo due ostetriche vanno a fare i controlli. Qui, questa pratica, purtroppo, non è prevista».
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