Riccardo Muti: «La musica mi ha guidato, io volevo fare il filosofo»

Riccardo Muti: «La musica mi ha guidato, io volevo fare il filosofo»
di Flaminia Bussotti
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Mercoledì 11 Luglio 2018, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 28 Luglio, 18:45
Cinquanta anni fa Riccardo Muti, a 27 anni, debuttò a Firenze, la città da cui spiccò il volo verso approdi planetari ma alla quale è rimasto legato come a pochi altri luoghi della sua geografia sentimentale. Oggi, i Il maestro acclamato in tutto il mondo, festeggia la ricorrenza dirigendo l’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino nel Macbeth di Verdi in forma di concerto al Teatro dell’Opera (replica il 13).

Lei ha un rapporto stretto con Firenze, cosa la lega alla città?
«A Firenze nasce tutto. Dopo avere vinto il concorso Cantelli ho avuto diverse scritture da teatri italiani, Genova, Catania, Firenze. Qui avvenne l’incontro con Svjatoslav Richter e l’Orchestra del Maggio e nacque un’intesa artistica e umana molto speciale. L’invito del sovrintendente Remigio Paone a dirigere un concerto divenne la porta per ingresso a direttore musicale. Il concerto (Mozart e Britten) fu un tale successo che Paone mi invitò una seconda volta nell’autunno del ‘68 e l’orchestra mi chiese di diventare direttore. Il che mi consentì di sposarmi, presi casa in Via dei Rucellai 15, vicino al teatro, e lì nacquero e crebbero i miei figli Francesco e Chiara i primi anni. Poi ci trasferimmo a Ravenna ma mia moglie Cristina volle che anche il terzo figlio, Domenico, nascesse a Firenze».

Qual è lo stato della nostra Cultura oggi?
«Domanda a cui mi sono aggrappato per decenni invocando sempre maggiore attenzione verso la Cultura e la Bellezza con la B maiuscola, cosa che Firenze rappresenta meglio di qualsiasi altra città al mondo. Parlando all’orchestra per la Messa da Requiem di Verdi nella Basilica di San Lorenzo, dissi allora che quello spazio evocava i nomi di Brunelleschi, di Donatello per i due pulpiti, Verrocchio per l’altare e Michelangelo per le tombe medicee sotto di noi. Quale città al mondo può raccogliere in pochi metri nomi come questi? ».

Cinquanta anni fa ha esordito in questa città: è tempo di bilanci?
«No, il bilancio non mi piace perché è l’anticamera della morte. Non ho mai fatto bilanci perché casomai andrebbe fatto ogni giorno, quel che si è fatto e non si è fatto. La mia vita è stata guidata da una specie di destino perché ogni volta che pensavo una strada se ne apriva un’altra: non volevo fare il musicista ma il filosofo, poi volevo fare il violinista e sono diventato pianista e direttore. Da buon meridionale sono radicato alla terra e mi ritrovo a girare per il mondo. È come se una mano mi avesse guidato».

Lei è uno dei massimi direttori mondiali: una responsabilità che forse pesa sull’artista e l’uomo?
«No perché non ho mai inteso la mia strada come corsa a essere il numero uno. Ho avuto una educazione ferrea in famiglia e dagli insegnanti, impostata al senso di responsabilità. Ero direttore del Maggio da due anni e mia madre dopo una rappresentazione avvicinò il critico Leonardo Pizzauti e gli chiese: “Dottor Pizzauti come va questo ragazzo”? Una educazione dove non è mai abbastanza quello che si fa. E poi un insegnante come Votto che oltre a essere un grande direttore è stato un insegnante di etica. Di fronte alla musica mai fare compromessi: questo insegnamento mi ha guidato sempre».

Dedica molte energie a preparare le nuove leve: sono insegnamenti tecnici o anche di vita?
«No, di vita no perché non entro mai nella vita privata delle persone. È un insegnamento artistico ed etico, come si deve svolgere il lavoro nella preparazione di un’opera italiana. L’Accademia per i giovani direttori di orchestra, che ha ricevuto quest’anno 200 richieste da tutto mondo, è nata dalla considerazione che l’opera italiana rispetto a quella francese e soprattutto tedesca è considerata intrattenimento piacevole più che impegno nell’ascolto e arricchimento culturale. I tenori, i cantanti oggi sembrano solo un’occasione per i registi di inventare storie che molto spesso non hanno nulla che fare col contenuto dell’opera, cozzano col libretto, stravolgono le situazioni. Penso a un recupero della figura del direttore ai tempi di Toscanini, Furtwängler, Bruno Walter, un punto di partenza, non un dittatore. La regia deve essere l’emanazione scenica dell’indirizzo musicale. Oggi questo ideale è svanito ma io sono cresciuto in questa scuola e continuo a lottare in questo senso».

Verdi è il compositore della sua vita. Riesce ancora a scoprire qualcosa di nuovo, a sorprendersi?
«Sì, questi capolavori sono senza fondo, ogni volta che ci si immerge ci si accorge che ci sono cose nuove da scoprire».

Lei parla spesso del messaggio universale della musica: può arrivare davvero a tutti?
«La musica deve raggiungere tutti, il competente in musica non esiste, è persona da tenere lontana e di cui diffidare.
La musica è rapimento, non comprensione».
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