Omicidio Macchi, gli errori del pm fra omissioni, anomalie e reperti persi

Il pm Agostino Abate e Lidia Macchi
di Silvia Barocci
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Domenica 24 Gennaio 2016, 10:11 - Ultimo aggiornamento: 26 Gennaio, 14:37
Un fascicolo rimasto aperto per 26 lunghissimi anni, senza che il magistrato titolare dell’indagine abbia mai chiesto formalmente la prosecuzione o l’archiviazione degli atti. Di più: senza vigilare su importanti reperti biologici, ora distrutti e in parte inspiegabilmente spariti, raccolti sul luogo dell’efferato delitto di Lidia Macchi. «Le anomalie, sia procedurali che investigative», riconducibili al pm di Varese Agostino Abate nell’inchiesta sulla morte della studentessa violentata e pugnalata 29 volte la sera del 5 gennaio 1987, «sarebbero state tali da compromettere gravemente la ricerca dei colpevoli». E’ leggendo le dieci pagine di motivazione dell’inedita ordinanza con cui la sezione disciplinare del Csm, lo scorso novembre, ha deciso di trasferire Abate in via cautelare a Como, imponendogli di fare il giudice civile e non più il pm, che si comprende come non debba essere affatto semplice per il sostituto pg di Milano Carmen Manfredda trovare quella traccia di Dna in grado di inchiodare Stefano Binda. A carico del sospetto killer, ex compagno di liceo di Lidia, arrestato la scorsa settimana a quasi 30 anni dal delitto, al momento ci sono solo perizie grafologiche su una lettera anonima spedita ai genitori della ragazza.

 

LA NEGLIGENZA DEL RIBELLE
La sezione disciplinare del Csm mette in fila la sfilza di errori gravissimi commessi dal 59enne magistrato di origine salernitana, che presto dovrà rispondere di altre contestazioni relative a nuove e numerose vicende. Pochi giorni fa, il Guardasigilli Orlando ha esercitato l’azione disciplinare nei confronti di Abate: l’agenzia delle Entrate di Varese gli aveva segnalato nel 2011 un’evasione fiscale per un totale di quasi tre milioni di euro a carico di tre esponenti di una nota famiglia locale, ma lui non ha fatto alcunché e ha «sottratto al controllo giurisdizionale» l’inchiesta. Un’altra dozzina di casi analoghi gli sono stati contestati, tra il 2014 e il 2015, dal pg della Cassazione: indagini aperte, nessuna attività istruttoria compiuta e, dopo una decina di anni, archiviazioni per prescrizione. Nel suo curriuculum Abate annovera alcune inchieste che gli hanno dato spazio sui quotidiani (la parentopoli varesina e le infiltrazioni delle cosche calabresi).

Ma anche clamorose polemiche. Era il 1993 quando l’allora leader del Carroccio Umberto Bossi, dell’allora 42enne Abate, zoppicante per i postumi di una poliomelite, disse durante un comizio: «raddrizzeremo la schiena a quel giudice» che aveva osato inquisire il parlamentare leghista Leoni. Del risarcimento milionario (in lire) accordato al magistrato si è forse persa memoria, perché nel frattempo Abate è diventato più noto per essere il pm che chiese l’archiviazione per due carabinieri e sei agenti di polizia ora sotto processo a Varese con l’accusa di omicidio preterintenzionale di Giuseppe Uva, l’operaio morto nel 2008 dopo aver trascorso parte della notte in caserma. Quando, due mesi fa, il magistrato è stato trasferito a Como, con una misura d’urgenza, in molti hanno immaginato che fosse per il caso Uva. Poi si è scoperto che la «grave violazione di legge» e l’«inescusabile negligenza» che gli venivano contestate riguardavano innanzitutto la gestione dell’inchiesta Macchi, ma anche l’aver pressato (e intimidito) una collega affinché gli trasmettesse il fascicolo sull’incendio doloso dell’ippodromo di Varese. La giovane pm, che aveva protestato con in capo dell’ufficio per l’inspiegabile ingerenza, era stata così avvertita: «devi cercare di capire bene da che parte stare», perché il procuratore capo (nel marzo 2014 il facente funzioni era Felice Isnardi) ha un incarico temporaneo e «tu non hai le spalle abbastanza larghe».

Abate, scrive il Csm, presenta una «ingiustificabile ribellione» all’organizzazione delle ferie: chiede un lungo periodo, dal 26 marzo al 9 ottobre del 2015 (ben sette mesi), ma poi rifiuta di indicare quali i provvedimenti che rischiavano la prescrizione. In conclusione, «l’apparente distonia tra una ingiustificata inerzia nella gestione di un fascicolo (l’inchiesta Macchi,ndr) e il contemporaneo attivismo rappresentato dalla pretesa di vedersi assegnare un procedimento del quale era titolare una giovane collega e dalla ribellione al godimento della ferie asseritamente impostogli, delinea il quadro di un magistrato che concepisce la funzione come esplicazione di una sua libera determinazione e non come attività inquadrata in un preciso sistema normativo di riferimento processuale ed organizzativo».

IL DANNO
Se i danni all’inchiesta Macchi saranno irreversibili si comprenderà col tempo.
Certo è che, pur essendo stati compiuti all’epoca alcuni accertamenti sul Dna, nel 2000 sono andati distrutti i reperti relativi ai vestiti e alla biancheria indossati dalla ragazza per una «qualsivoglia vigilanza» da parte di Abate. Il quale, peraltro, non si preoccupò mai di indagare sulla scomparsa dal fascicolo, segnalatagli dalla squadra mobile di Varese nel 2010, di 11 vetrini con tracce di liquido seminale e di due frammenti di tessuto del pantalone della ragazza. Né diede mai risposta alle richieste che l’Unità delitti insoluti della Polizia gli fece dal 2009 al 2011. 
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