Ferrara era stato assolto con la formula «perché il fatto non costituisce reato». Nell'articolo, come si legge nell'imputazione, il giornalista parlando del processo davanti alla Corte d'Assise di Palermo ed «in relazione alle minacce proferite» dal boss Totò Riina nei confronti di Di Matteo, aveva «qualificato l'attività di indagine diretta» dal pm «come 'spaventosa messa in scenà che sarebbe stata predisposta ed avviata per perseguire finalità politiche e con l'intento di danneggiare l'immagine dell'allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano». Il giudice fa notare, prima di tutto, che si tratta «di un editoriale, ovverosia di un articolo che ha la funzione di esprimere il punto di vista della testata». E che non è «un articolo di cronaca giudiziaria», ma «una riflessione sulle implicazioni del processo Trattativa Stato-Mafia» nella quale «Ferrara esprime il proprio dissenso sulla visione politico-giudiziaria in ordine alla lotta alla mafia». Il diritto di critica, spiegano le motivazioni, «si concretizza dunque nella espressione di un giudizio o, più genericamente, di un'opinione che, come tale, non può pretendersi rigorosamente obiettiva». E i limiti «della critica alle istituzioni giudiziarie sono preordinati a garantirne la difesa da attacchi sprovvisti di fondamento, ma tali limiti non sussistono qualora la critica» riguardi inchieste «giudiziarie aventi innegabile effetto politico».
Quindi, non è censurabile nemmeno «il riferimento nell'ultima parte dell'articolo al "rito palermitano" e alla ritenuta mancanza di serietà delle inchieste giudiziarie».
Il giornalismo «scomodo e polemico di Ferrara», conclude il giudice, non persegue «l'obiettivo di ledere l'onore e la reputazione» ma solo quello di «criticare e disapprovare alcuni fatti e comportamenti connessi al processo che ancora si sta svolgendo presso la Corte d'Assise di Palermo».
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