La parabola di Sarkozy agli arresti

di Marina Valensise
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Mercoledì 21 Marzo 2018, 00:02
Non sono passati nemmeno sei anni da quando Nicolas Sarkozy ha lasciato l’Eliseo, sconfitto alle presidenziali del 2012 dal socialista François Hollande, che l’ombra lunga della responsabilità si staglia su di lui come un plumbeo velo. È il momento del redde rationem, non solo giudiziario ma politico.

Dalle otto di ieri mattina, l’ex ministro degli Interni di Jacques Chirac ed ex presidente della Repubblica francese Sarkozy è in stato di fermo al commissariato di Nanterre. Deve rispondere davanti all’ufficio anticorruzione della polizia giudiziaria dei cosiddetti «finanziamenti libici», e in particolare del sospetto di corruzione della democrazia francese da parte della dittatura libica del colonnello Gheddafi. Con lui, i poliziotti dell’Oclciff (Ufficio centrale della lotta contro la corruzione e le infrazioni finanziarie e fiscali) hanno convocato anche il suo braccio destro Brice Hortefeux, già ministro degli Interni, e attualmente eurodeputato, dunque protetto da immunità parlamentare e perciò sentito in veste di «libero sospetto». 

Nessuno mette in dubbio la presunzione di innocenza di cui in uno stato di diritto ogni cittadino gode sino alla sentenza della sua eventuale colpevolezza. Ma il fermo di Nicolas Sarkozy segna un punto di non ritorno nella parabola discendente dell’ex presidente, iniziata proprio nella primavera del 2011. Fu allora infatti, e con gran scorno dell’Italia e del governo suo alleato di Silvio Berlusconi, che il presidente francese, sino a poco prima amico e alleato del dittatore libico, Sarkozy che s’ispirava a Berlusconi nella presa diretta sull’elettorato, che sognava di rilanciare la politica del Mediterraneo, tant’è che a sei mesi dalla sua elezione aveva accolto il colonnello libico a Parigi in pompa magna, consentendogli di accamparsi con la sua tenda e il suo harem nel giardino dell’Eliseo, cambiò di punto in bianco strategia. Dando ascolto a Bernard Henri-Lévy, il difensore dei diritti umani sempre a caccia di riflettori, decise di puntare sulla primavera araba, appoggiò gli insorti di Bengasi, e di comune accordo col premier conservatore inglese David Cameron, decretò l’intervento militare in Libia, ben presto ratificato dalla Nato, provocando la capitolazione di Gheddafi, un cambio di regime fatale per tutto il Mediterraneo, con la frammentazione di tribù in lotta tra loro, l’esplosione delle frontiere, gli sbarchi incontrollati di migliaia di migranti, e l’ instabilità dell’intera regione.

Sui finanziamenti libici in Francia si indaga sin dall’aprile del 2013. Ma è la prima volta che l’ex presidente è chiamato a rispondere di persona. L’accusa è nota. Ziad Takieddine, un faccendiere libanese non nuovo a questo genere di transazioni, arrestato a sua volta dopo il crollo di Gheddafi, ha confessato nel 2016 di aver portato fuori dalla Libia cinque milioni di euro in contanti per consegnarli in mano a Claude Guéant, capo di gabinetto dell’allora ministero degli Interni, e in seguito segretario generale all’Eliseo. Takieddine ha foraggiato il sito Mediapart di Edwy Plenel con indizi inquietanti, suffragati poi dall’ex capo dei servizi segreti militari cognato di Gheddafi Abdallah Senoussi, e dagli appunti dell’ex ministro per il Petrolio ed ex capo del governo Chourki Ghanem, misteriosamente scomparso. E’ presto per dire quali altri indizi siano emersi dal recente arresto a Londra del franco algerino Alexandre Djouhri, un altro mediatore sospetto di raggiri finanziari e inviso al libanese Takieddine. Ma oltre l’inchiesta giudiziaria, restano da chiarire le responsabilità internazionali di un alleato inaffidabile e di un politico impulsivo che ha innescato, forse per ragioni indicibili, un processo di dissoluzione di un’intera regione, con conseguenze disastrose non solo per la democrazia francese, ma per tutta l’Europa.
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