La scommessa/ L’imprenditore può ispirare il presidente

di Virman Cusenza
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Giovedì 10 Novembre 2016, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 08:16
Il fenomeno lo abbiamo sperimentato per primi ventidue anni fa. Eppure ciò non è bastato, almeno a noi italiani, per affinare i sensi e fiutare in anticipo ciò che stava per accadere negli States. Intendo il «lo voto ma non lo dico» che ha prodotto l’effetto sorpresa con la vittoria di Donald Trump. Elettori imbarazzati, reticenti e perfino pronti ad arrossire davanti alla domanda dei sempre più smarriti sondaggisti. Nel ‘94 era il turno di Silvio Berlusconi, una versione light e pioneristica, quanto profetica, oggi il bis con il ruggente tycoon appena eletto presidente degli Usa. Ma c’è un rischio da evitare nell’analisi di un voto dirompente e destinato a trasformare l’America e i Paesi, magari già contagiati dalle divisioni verticali che oggi spaccano il globo, che ad essa guardano. Quello di ricorrere a vecchi schemi e generalizzazioni che ben conosciamo. È riduttivo e semplicistico parlare di segnale di protesta o di rabbia per spiegare la vittoria di Trump. Rischieremmo di non capire quello che è successo e soprattutto rischieremmo di ripetere errori commessi anche in Italia.

La vittoria è sì inaspettata rispetto a tutti i pronostici, ma in realtà profondamente sentita come spiegano in dettaglio i meccanismi che hanno aggiudicato i grandi elettori al candidato repubblicano. Sì è vero, la differenza in termini assoluti non è grandissima con i democratici, ma la portata del successo di Trump e il suo radicalismo di posizioni durante la campagna elettorale ci fanno capire quanto in realtà sia un voto fortemente voluto. E non c’è cosa di pancia che, sedimentata nel tempo, non sia voluta anche dalla testa. Lo dimostra proprio la tenuta, anzi addirittura l’allargamento del campo di opinione dei repubblicani, nonostante la frattura al suo interno proprio sull’appoggio da dare al miliardario americano. È indubbio che Trump abbia drenato evidentemente una parte degli scontenti del campo democratico, proprio coloro che magari ai sondaggisti non hanno rivelato che avrebbero votato appunto per The Donald.

La ragione sta tutta in quel calcio alle élites che ormai appare come una costante in tutte le democrazie oggi impegnate a rinnovare i propri vertici. C’è una profonda insoddisfazione per le forme classiche di rappresentanza e gli interpreti che promettono di mandarle in frantumi o di ridisegnarle, secondo un nuovo ordine, vengono premiati. Ma a questo punto è in agguato un’altra generalizzazione errata. Quella di iscrivere Trump allo stesso partito degli autonomisti inglesi che hanno appunto vinto con la Brexit o degli outsider come la destra ungherese di Orban, fino ad arrivare a qualche inquilino di casa nostra, come Grillo e i 5 Stelle. Di comune c’è semplicemente la voglia, frutto di attenti studi del profondo inconscio degli elettori occidentali, di rottura del Sistema. Il Cambio che spezzi gli schemi di rappresentanza che evidentemente non funzionano più per le classi una volta emergenti e trainanti o degli esclusi che non riescono ad entrare in partita.

Ma chi conosce Trump, chi conosce la storia americana, sa quanto poco di ideologico ci sia nel voto di oggi e quanto invece di molto pragmatico. C’è una richiesta esplicita di ottemperare ad un contratto che, in cambio del consenso, pretende di ottenere una frattura, uno strappo attraverso concrete misure, o la ridefinizione delle priorità sociali americane. Quelle priorità su cui si è infranta la capacità di analisi e di risposta delle élites di cui la Clinton era l’espressione algida e non munita di efficace scandaglio.

Certo con l’avvento di Trump ci sono delle preoccupazioni evidenti per l’opinione pubblica internazionale. Parafrasando Eugenio Montale, è chiaro per il neo presidente «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». Il programma trumpiano difetta di disegno. E non indica concretamente come comporre i conflitti che egli stesso ha contribuito ad esacerbare: come quello razziale all’interno della società americana. Ma il discorso, il primo che Trump ha fatto da vincitore, lascia per fortuna presagire un approccio ben diverso da quello della campagna elettorale. Ha promesso di ricucire un Paese lacerato di cui egli stesso ha allargato i solchi, pur di concentrare su di sé gli elettori delusi della sponda opposta. Difficile dire se abbia prevalso l’Istrione o il neo uomo di Stato. Le Borse sembrano credergli. Speriamo che, attingendo alla sua storia personale, Trump rinunci ad un futuro da Picconatore senza freni. Ha fatto l’imprenditore per una vita, lo showman e adesso il politico. E conoscerà la regola aurea della ricostruzione dopo ogni terremoto che si rispetti.

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