Ascesa e caduta/Matteo, la catena degli errori e l’uscita con stile

di Mario Ajello
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Lunedì 5 Dicembre 2016, 02:33 - Ultimo aggiornamento: 6 Dicembre, 18:26
Esce con stile e con dignità Matteo Renzi da Palazzo Chigi. La sconfitta che lo riguarda è di portata storica. Ma il premier dimostra, e non è la prima volta, basti ricordare il post-primarie quando fu superato da Bersani, di saper perdere. E di essere capace di trovare il tono giusto, nella sconfitta, proprio quello che non è riuscito a trovare mentre costruiva la vittoria che ha clamorosamente mancato. 

Per errori propri ma anche a causa di un certo modo di essere del Paese, che cinquant’anni fa Ennio Flaiano riassumeva in una parola: No. Scriveva quel genio: «Gli italiani hanno come preferenza assoluta il rifiuto, ma senza spiegare il rifiuto. E devono dire sempre nelle urne, in tutte le maniere, preferisco di No. E’ il modo segreto di sentirsi definitivamente sereni. E forse quelli del Sì cominceranno a chiedersi che cosa non viene apprezzato nel loro ottimismo». Se lo sta chiedendo anche Renzi e non può evitare d’interrogarsi sui propri sbagli. 

Anzitutto, il premier ha mostrato un deficit di conoscenza del Paese reale e dell’elettorato in generale. Ha evocato la «maggioranza silenziosa», rispolverando questa vecchia categoria nella campagna referendaria, senza saperne bene i caratteri e gli umori. Ha peccato di riformismo dall’alto. E insieme ha affastellato di obiettivi e di promesse, anche fra loro contraddittorie, il suo rush finale. Troppe carte giocate e tutte insieme hanno prodotto confusione.

In un Paese già di per sé confuso e spaventato. La paura del salto nel vuoto, su cui egli ha puntato per conquistare i
Sì, non ha funzionato. La giusta esigenza di voler dare una scrollata all’Italia paludosa e conservatrice - quella su cui si sono fatti forza i suoi avversari - si è inabissata nelle sabbie immobili. 

L’errore della “reductio ad unum” di questa battaglia, ossia della personalizzazione, dell’Io contro tutti, Renzi non è riuscito a sanarlo nel corso dei mesi. Finendo per restare prigioniero di un concetto titanico di se stesso. L’effetto è stato quello di trasformare il referendum costituzionale in un referendum confermativo o abrogativo del suo governo. Saldando sull’abrogazione e sulla post-verità, ossia sulla bugia vintage di una «deriva autoritaria» impossibile e non voluta, tutti gli opposti: Berlusconi e Ingroia, l’Anpi e Casa Pound, D’Alema e Salvini, Monti e Landini. La famosa «accozzaglia».

Che tale più o meno appare, ma essere precipitato nella trappola del linguaggio muscolare e insultante tesagli da Grillo, che ne è specialista, è stata una scivolata che un capo di governo dall’alto della sua funzione avrebbe potuto evitare. A volte, Renzi è apparso un politico di opposizione, di opposizione a Grillo, e non il promotore di una nuova Costituzione che l’Italia aspetta da decenni e che in molte parti innovava il sistema Paese nella direzione opportuna. Ma il continuo appellarsi, da parte di Renzi, alla materia costituzionale dei vari articoli («Votate su quelli, non sul governo») non è apparso un invito davvero convinto e la concezione puramente agonistica dello scontro politico, tipica del premier che ama lo sport e a cui piace ricalcarne gli stilemi, ha preso il sopravvento. 

Una riforma che indebolisce i poteri delle Regioni ha scatenato la mobilitazione per il No non solo delle cruciali e innovative Lombardia e Veneto e dei loro governatori di centro-destra, ma ha mobilitato tutto l’insieme dei poteri locali – anche Pd e si veda la Puglia di Emiliano – e dei vari notabilati dei partiti e delle corporazioni, con le loro ramificazioni clientelari anche di sinistra. E non è bastato il coraggio con cui Renzi ha ingaggiato questa sfida per portarlo alla vittoria. Il 70 per cento di No della Campania, dove comunque il governatore De Luca è stato super attivo e super tifoso della riforma, è un dato che racconta ciò che si è appena detto. E che conferma, insieme al resto dei risultati, quanto tra le ragioni della sconfitta ci sia la lontananza renziana nei confronti del Mezzogiorno. Un approccio antico ha mostrato in questi anni il premier nei confronti del Sud, fatto di diffidenza e di elargizioni. E invece dello sforzo per creare un partito democratico innovativo, secondo i dettami renziani vigenti altrove, il segretario ha adottato un atteggiamento rinunciatario appoggiandosi ai notabilati di sempre e agli “ascari” da età giolittiana. 

Roma costituisce un capitolo importante nella costruzione di questa sconfitta. Ha votato molto (69,8) e ha votato molto per il No, quasi il 60 per cento, e questi dati vanno ricollegati al fatto che Renzi, anche per sua stessa ammissione, conosce poco la Capitale. La quale finora non è apparsa in cima alla agenda di Palazzo Chigi, come meriterebbe per ruolo e per status. Un segnale di critica è stato mandato dai romani ed è anche figlio della sottovalutazione che essi credono di patire come città da parte del governo centrale. Senza considerare, poi, che lo scandalo dei poteri marci del Pd colpevole del collasso di Roma, e di ciò che ne è derivato (la vittoria grillina e l’inazione per ora da parte della nuova giunta), evidentemente continua a generare un’onda lunga che ha travolto anche il Sì referendario. 

E ancora: il titolare della «nuova politica», il premier più giovane della storia italiana, non è riuscito a parlare ai giovani ed è stato ricambiato con un senso di estraneità già percepibile da tempo (alla Leopolda su questo si è fatta anche autocritica) e che ora con ogni probabilità si è tradotto in una moltitudine di No. Che sono lievitati sugli errori renziani ma anche derivanti da malessere sociale di fondo - non imputabile in buona parte all’azione del governo perché è congiunturale - e su una crescita economica che c’è, però è modesta e non viene percepita. 

I fattori che hanno prodotto l’insuccesso insomma sono molteplici e variegati. Ma saper perdere è il migliore viatico per rifarsi. E la lucidità di queste parole di Emil M. Cioran può valere come una lezione preziosa per Renzi che sta lasciando partito e governo ma non rinuncia a nuove sfide: «Qual è l’apporto di una sconfitta? Una visione più precisa di noi stessi».
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