La cittadinanza non basta per garantire l’integrazione

di Alessandro Campi
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Domenica 18 Giugno 2017, 00:05
Secondo la legge italiana sulla cittadinanza, approvata nel 1992 e fondata sul cosiddetto ius sanguinis, è italiano chi nasce da almeno un genitore italiano. Ma in Italia esiste anche una forma, per quanto macchinosa, di ius soli. Un bambino nato sul territorio italiano da genitori stranieri può infatti chiedere la cittadinanza al raggiungimento del diciottesimo anno purché sino a quel momento abbia risieduto nel Paese “legalmente e ininterrottamente”. La nuova legge di cui si sta discutendo in questi giorni (approvata dalla Camera alla fine del 2015 e giunta ora al Senato fra mille polemiche) prevede una semplificazione dei criteri di concessione della cittadinanza con riferimento ai bambini, figli di genitori stranieri, nati o cresciuti in Italia.

Nella nuova normativa sono previste due modalità. Il cosiddetto “ius soli temperato” (per distinguerlo dallo ius soli in senso proprio, vigente ad esempio negli Stati Uniti e in virtù del quale basta nascere in un determinato paese per diventarne automaticamente cittadino) e lo “ius culturae”. La prima prevede che affinché un bambino nato in Italia ne acquisti la cittadinanza occorre che uno dei genitori vi risieda legalmente da almeno 5 anni. E se non proviene dall’Unione europea deve dimostrare di possedere un reddito e un alloggio, nonché di conoscere la lingua italiana.

La seconda modalità riguarda invece quei minori stranieri, arrivati in Italia entro i 12 anni di età, che abbiano frequentato le scuole per almeno 5 anni o completato almeno un ciclo scolastico. Mentre per quelli arrivati tra i 12 e i 18 anni la concessione della cittadinanza è subordinata al fatto che abbiano abitato in Italia per almeno 6 anni e superato anch’essi un ciclo scolastico.

Questa legge è stata presentata dalla sinistra come una conquista di civiltà. Chi vi si oppone (o più semplicemente ne indica gli aspetti controversi) automaticamente rischia di trovarsi dalla parte dell’oscurantismo. Ma si tratta di uno schematismo ideologico (e morale) inaccettabile. Parliamo di una legge che deriva non da un imperativo etico universale al quale si può solo obbedire, ma da una decisione politica frutto a sua volta di una ben definita visione della società e della storia. Chi la sostiene immagina un mondo nel quale le frontiere siano destinate un giorno a scomparire. Ritiene che gli uomini siano per definizione esseri nomadi e pendolari. Le appartenenze, statuali o nazionali, a loro volta sono viste come qualcosa di fittizio e convenzionale. Mentre la cittadinanza è considerata solo come uno status legale-formale che nulla può avere a che fare con legami in senso lato familistici o naturali, o che siano basati su una qualche forma di discendenza, anche solo di tipo storico-culturale. Sono posizioni culturali legittime, ma non sono le uniche alle quali si può concedere il sigillo della ragionevolezza.

Come ogni decisione politica anche questa sulla cittadinanza, per quanto animata dalle più nobili intenzioni, merita poi di essere valutata alla luce della contingenza che dovrebbe farla nascere e degli effetti (compresi quelli indiretti o non previsti) che è destinata a produrre e sui quali, sull’onda dell’entusiasmo, si rischia di sorvolare.

La contingenza è quella di una legislatura giunta quasi alla sua fine naturale e di un Paese che sta affrontando una difficile emergenza legata ai continui sbarchi sulle sue coste di immigrati clandestini e di profughi. Ciò significa che non poteva esserci momento peggiore, dal punto di vista politico e degli umori dell’opinione pubblica, per la discussione di un simile provvedimento, che non a caso è immediatamente divenuto – per entrambi i fronti – oggetto di propaganda e di contesa elettoralistica. L’esatto contrario del clima pacato e dialogante che sarebbe stato necessario per discutere su una materia tanto delicata.

Ci sono poi da considerare i diversi effetti che questa legge può produrre. Da un lato essa offre a tanti giovani e ragazzi nati e cresciuti in Italia (e che in molti casi si considerano italiani sotto ogni riguardo, dalla lingua alle abitudini alimentari) la possibilità di non sentirsi più degli ospiti ma dei cittadini a tutti gli effetti. Questo è il suo aspetto edificante, positivo e altamente apprezzabile. Ma non bisogna nascondersi anche i risvolti problematici. Per esempio il fatto che essa potrebbe incentivare i flussi verso l’Italia. Il nostro è un Paese esposto e permeabile sul fronte delle migrazioni: percepito non solo come generoso e accogliente (il che va a suo onore) ma anche come lassista e poco in grado di far rispettare le regole. Per quanto la nuova legge sulla cittadinanza riguardi solo i figli di stranieri già residenti regolarmente nel Paese, il segnale pericolosamente semplificato che in questo particolare momento storico essa è destinata a trasmettere (e sul quale lucreranno certamente i mercanti di uomini) è che l’Italia abbia aperto le sue frontiere a chiunque voglia entravi per diventarne cittadino.

Non bisogna poi nascondersi, in un’età nella quale la lotta al terrorismo e il tema della sicurezza collettiva hanno assunto un’assoluta centralità, che allargare con troppa generosità le maglie della cittadinanza può esporre a seri rischi. Ottenere la cittadinanza italiana – magari dopo un percorso scolastico di appena cinque anni: un periodo che il vecchio Giovanni Sartori riteneva del tutto insufficiente a formare un “nuovo italiano” – non crea automaticamente vincoli di lealtà e identificazione. L’esperienza storica recente di Paesi quali la Gran Bretagna o la Francia dimostra che la cittadinanza legale non favorisce in modo meccanico e scontato i processi di integrazione sociale e di acculturazione. Si è visto anzi come nei giovani figli di immigrati, una volta ottenuto lo status di cittadino, possano al contrario scattare forme di orgoglio identitario, nostalgicamente riferite alle comunità o nazioni d’origine, che li portano ad assumere un atteggiamento di chiusura ed estraneità – quanto non di ostilità vera e propria – nei confronti delle nazioni (e delle culture) di adozione.

Coloro che si battono per la riforma dei criteri di cittadinanza, immaginando che il suo allargamento serva a neutralizzare i conflitti basati sulle identità (a partire da quelle religiose) e far nascere una società più armonica e solidale basata sul rispetto e lo spirito di convivenza, sembrano francamente mossi da un eccesso di ottimismo. L’esatto pendant dei toni allarmistici usati da coloro che invece paventano, rispolverando un nazionalismo anacronistico e a rischio di scivolare nella xenofobia, l’islamizzazione dell’Italia o la scomparsa delle sue tradizioni culturali per colpa degli stranieri che ne diventeranno cittadini. L’irenismo delle anime belle e lo spirito di chiusura dettato da un malinteso spirito patriottico: ecco i due errori che non si è riusciti ad evitare e che hanno condotto al clima di scontro di questi giorni.

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