I veti da superare/ Ma nella guerra istituzionale perdono tutti

di Alessandro Campi
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Domenica 27 Maggio 2018, 00:01
La partita per la nascita del nuovo governo s’è ingarbugliata a tal punto da rendere legittimo ogni genere di sospetto. E se Matteo Salvini stesse in realtà cercando il pretesto per far saltare tutto e andare al voto anticipato? Secondo alcuni s’è già pentito dell’accordo siglato col M5S e vorrebbe liberarsene scaricando però lontano da sé (nientemeno che sul Capo dello Stato) la colpa dell’impasse nella quale si è finiti. Secondo altri, avrebbe in realtà costruito una trappola sul punto di scattare.

Prima ha portato Di Maio alle soglie del governo, illudendolo che insieme avrebbero fatto grandi cose e che non valeva la pena perdere tempo con altri interlocutori, ora si appresta ad abbandonarlo. Per puntare dritto alle urne e accaparrarsi il bottino che i sondaggi gli accreditano, godendo altresì della terribile resa dei conti che s’innescherebbe tra le fila dei grillini per un simile fallimento. Ma sospetti, retropensieri e machiavellismi non fanno bene né al confronto politico né al dibattito pubblico. Oltre ad allontanare una verità che spesso è banale e a portata di mano. Se il governo giallo-verde fatica a nascere probabilmente è solo perché nella fase più delicata della negoziazione ci sono state impuntature eccessive e si sono fatti errori al tempo stesso ingenui e maliziosi.
Per quanto concerne Di Maio, dovrebbe rendersi conto che l’“uno vale uno”, perno ideologico del radicalismo democratico grillino, può servire al massimo per dare uno scranno parlamentare a un oscuro militante, non per scegliere un ministro, di scarso curriculum ma col certificato di onestà in tasca. Cosa dovrebbe fare Mattarella, che già ha accettato l’inusuale scelta del “cittadino” Giuseppe Conte quale premier incaricato, dinnanzi alla proposta di nomi palesemente inadeguati al ruolo? Senza contare che nell’affossare questo o quel potenziale ministro hanno sinora contato più i contrasti interni allo stesso M5S che i veti quirinalizi. Per quanto concerne Salvini, è regola antica in una trattativa non mostrarsi troppo interessati a ciò cui si tiene veramente: specie se, come nel caso dei ministri, anche i bambini sanno ormai che la scelta e successiva nomina formale compete prima al presidente del Consiglio in pectore e poi al Colle, le cui prerogative non si possono intaccare oltre il lecito. Un politico scaltro, che tenga al risultato finale, suggerisce, non impone; caldeggia indirettamente, non alza la voce ponendo ultimatum. Stiamo ovviamente alludendo al caso di Paolo Savona. A proposito del quale, visto il livello di tensione cui si è arrivati, sarebbe utile capire le ragioni esatte dei dubbi e delle paure che alimenta il suo nome, nonostante l’apprezzamento che lo circonda e l’esperienza internazionale che può vantare. L’essere un critico dell’euro non è un grande argomento. Anzi, portare in Europa una voce dissonante (ma professionalmente rigorosa) potrebbe persino essere un bene per quest’ultima, visto che tutti convengono ormai sulla necessità di riformare l’Eurozona. Così come non può essere ostativo il fatto che egli sia notoriamente severo con l’egemonismo politico-economico della Germania mascherato da rigore contabile. 

Andrebbe dunque fatta chiarezza dinanzi all’opinione pubblica: se non altro per non alimentare voci incontrollate come quelle che vorrebbero Savona ai ferri corti, anche per ragioni personali, col governatore della Bce Mario Draghi, della cui contrarietà il Colle si starebbe dunque facendo carico. C’è oltretutto un problema di coerenza politica che rende poco comprensibile il veto su Savona: la linea del governo sull’Europa, viste le forze chiamate a sostenerlo, difficilmente potrebbe essere diversa da quella che egli interpreterebbe, se non altro con riconosciuta autorevolezza. In un esecutivo d’euroscettici non si può pretendere di affidare l’economia a un custode dell’ortodossia europeista. La strada migliore perciò potrebbe essere quella di una efficace moral suasion, metodo spesso praticato con successo da Mattarella, per addivenire ad un nuovo nome che soddisfi i proponenti. Oppure una dichiarazione del professore chiarificatrice e rassicurante anche sul piano internazionale. Una strada solare che fugherebbe ogni pericolo e gli ingiusti tentativi di voler fare apparire il Quirinale come parte e non super partes. 
Del resto non si può far crollare tutto per un nome. Visto che tanto lo spartito non cambierebbe perché Salvini, invece di insistere nel suo pericoloso (per il Paese) braccio ferro col Quirinale, non prova a suggerire un altro esecutore-interprete sempre di sua fiducia? Sempre che l’obiettivo vero sia far nascere questo governo. E nella speranza che sia chiaro ai protagonisti di questa partita il danno che a questo punto tutti ricaverebbero da un eventuale fallimento. Partiamo proprio da Salvini. Ha forzato la mano a Berlusconi pur di impegnarsi in una lunga trattativa coi grillini, ha portato l’alleanza di centrodestra sul punto di rottura, e ora rischia di dover tornare mestamente nel vecchio ovile politico dove troverebbe un padre infuriato e fratelli (d’Italia) altrettanto maldisposti. Certo, avrebbe sulla carta il piano B delle elezioni anticipate, ma Salvini dovrebbe sapere – visti i messaggi inoltrati al Colle dai messi del Cavaliere – che quest’ultimo farà di tutto perché non si vada a votare.

Di Maio, inutile dirlo, perderebbe l’occasione della vita. Finirebbe senza gloria la sua fulminea carriera. Ma il riverbero sarebbe negativo per l’intero movimento. Chi lo ha votato (un italiano su tre) lo ha fatto per vederlo realizzare al governo almeno alcune delle sue generose promesse. La rabbia populista fa presto a indirizzarsi verso altri lidi. Gravissime infine sarebbero le ricadute sul Colle, sul quale si può già immaginare quali accuse pioverebbero, con il rischio di minarne così il profilo di garanzia e il ruolo equilibratore d’un sistema politico da anni in perenne fibrillazione: di aver causato le elezioni anticipate coi suoi interdetti, di aver manovrato contro il governo del cambiamento nell’interesse di chissà quali poteri forti, di essere sempre stato a favore di qualche variante di governo tecnico, di non essere stato imparziale ecc. Un copione che già conosciamo ma con interpreti di ben minore spessore e credibilità dell’attuale inquilino del Colle. 

Insomma, questo governo, non avendo oltretutto alternative se non un nuovo scontro elettorale pieno d’incognite, s’ha da fare, riportando la trattativa di queste ore nell’alveo della ragionevolezza e della correttezza istituzionale. E ciò nell’interesse di tutti i soggetti coinvolti nella sua nascita; degli elettori che in fondo lo hanno voluto, magari per pentirsene un giorno; e infine dell’Italia intera, che non può permanere a lungo in questa situazione d’incertezza. Anche perché una crisi politica, con connesse turbolenze finanziarie, possiamo anche sopportarla. Una crisi istituzionale, come quella che rischia diesplodere così continuando, potrebbe invece esserci letale. 
 
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