Investimenti e tariffe/Nuove regole per migliorare l’infrastruttura

di Oscar Giannino
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Sabato 18 Agosto 2018, 00:04
Le polemiche sull’ipotesi di revoca immediata della concessione ad Autostrade per l’Italia hanno lasciato spazio a una più attenta riflessione su quanto dettagliatamente previsto a disciplina dell’ipotesi di recesso: distinto per inadempimento non grave e grave, con diverse procedure e diversi meccanismi di congruo indennizzo al concessionario. Meglio così. Ma è bene invece levare lo sguardo al problema più generale, su cui la tragedia di Genova ha attirato l’attenzione pubblica.

Dopo che per vent’anni era materia di dibattito solo tra pochi addetti ai lavori. Senza alcuna pretesa di sostituirvicisi, vorremmo dunque consigliare al governo un’iniziativa che ci sembra più che mai opportuna. È venuto il momento di mettere mano a una riforma generale del sistema di remunerazione dei concessionari autostradali. Una riforma equilibrata e organica, da illustrare in un confronto diretto ai 25 concessionari oggi raccolti nell’Aiscat, che gestiscono 6 mila dei quasi settemila chilometri di autostrade nel nostro Paese. Ognuno dei quali con scadenze concessionarie diverse, e spesso anche con formule tariffarie che risultano diverse, grazie agli addendum a ogni singola concessione che ancora ci sono sconosciuti, in quanto secretati. 

È una riforma necessaria, perché nei decenni si sono accumulati davvero troppi errori. Ed è oggi, dopo la tragedia di Genova, il momento giusto per porvi riparo. La piena pubblicità degli addendum delle convenzioni – superando l’obiezione formale secondo la quale sarebbe improprio favore ai concorrenti, visto che il bene gestito in regime concessionario resta pubblico, e dunque la piena trasparenza è obbligata - è solo l’inizio. Cerchiamo di mettere in fila almeno alcune delle più rilevanti questioni che dovrebbero essere ricomprese in una revisione complessiva. 
La prima è di tipo istituzionale. La mancata trasparenza delle convenzioni, rispetto a funzioni pubbliche di controllo e verifica passate nel tempo dall’Anas al Ministero delle Infrastrutture, ha finito per alimentare un regime di opacità generale a effetto distorcente.

L’errore capitale della politica fu di procedere alla privatizzazione di Autostrade senza prima far nascere l’Autorità dei Trasporti, che è invece operativa solo dal 2014 e incredibilmente non ha responsabilità sulle concessioni in essere. Fu una patente violazione di legge: l’obbligo di procedere alla costituzione dell’Autorità prima di privatizzare era previsto esplicitamente dalla legge 474 del 1994. Una modifica significativa del sistema tariffario abbisogna di competenze tecniche e soprattutto di piena indipendenza anche nei confronti della politica, che può essere tentata sia da trattamenti di favore verso questo o quel concessionario, sia a scelte d’investimento che reputa a propria volta più utili a valorizzare un’infrastruttura che a fine concessione dovrebbe rientrare nelle mani dello Stato, per rimetterla a gara (ma nella privatizzazione gare non ce ne sono state) o per tornarla a gestire in house. 
Il secondo errore capitale, purtroppo fatto nel 1999-2003 proprio a seguito della privatizzazione di Autostrade, è stata la protrazione generale delle convenzioni anche oltre i 20 anni, rispetto ai tempi procedenti. E che è continuata con proroghe fino anche al 2050. Non è consigliabile annullarle, ci si esporrebbe a impugnative. Ma è una prassi da interrompere, assolutamente. Anche perché la direttiva europea in materia le limita ordinariamente al tempo di 5 anni. 

Quel che invece va fatto è intervenire sulle molte, troppe asimmetrie che si sono nel tempo accumulate nel metodo di calcolo della remunerazione. La prima è quella di esser sempre ripartiti – nei diversi interventi normativi e del Cipe sulla questione, nel 1996, 1999, 2003 e 2007 – tenendo sempre per buona la base tariffaria precedente riconosciuta ai concessionari. Cioè deliberatamente senza fare caso al fatto che, essendo le tratte autostradali realizzate quasi tutte tra gli anni ’60 e ’70 dello scorso secolo, in realtà non c’era più o era sempre più limitata la componente tariffaria da dover riconoscere in ammortamento dell’investimento per la realizzazione primaria dell’opera. Lo stesso Cipe nel 2013 rilevò che il principio generale del riconoscimento della redditività al concessionario imporrebbe il ritorno a una tariffa unitaria che facesse stato del capitale originario netto investito da ogni singolo concessionario, e che al contrario tale principio risultava inattuato per l’assenza di una ordinata contabilità regolatoria a tal fine. Sullo stesso punto è tornata invano Bankitalia, per esempio nella sua testimonianza resa a Montecitorio l’11 giugno 2015. Di fatto, a oggi, stante che i piani finanziari delle concessionarie risultano secretati anche dopo la parziale disclosure voluta da Delrio, non sappiamo ancora se il recupero sia stato fatto oppure no.

Ma continuiamo. Sempre Bankitalia ebbe a dire che il regime generale del price cap, a cui dovrebbero ispirarsi gli almeno sei modelli tariffari distinti che ricorrono nelle 25 concessioni, dovrebbe ispirarsi al principio di adeguamenti tariffari legati all’inflazione, sottraendo una quota dovuta alla maggior produttività realizzata dal concessionario e da destinare in parte in minor prezzo al cliente autostradale, più la remunerazione degli investimenti compiuti. Di retrocessioni al cliente della maggior produttività – a giudicare dall’andamento di molto maggiore degli aumenti tariffari rispetto all’inflazione – non se ne sono viste grandi tracce.

In più, continuava Bankitalia, quello che risultava macroscopicamente era un discostamento per anno anche superiore al 50-70% tra investimenti promessi dalle concessionarie nei loro bilanci – non sappiamo se in linea coi piani finanziari presentati al Ministero – rispetto a quelli realmente realizzati. E questo per due ordini di motivi. Il primo: un recupero della purtroppo regolare sovrastima dei flussi di traffico, scesi nella crisi e poi tornati a risalire in questi anni di sia pur modesta ripresa. Il secondo, ancor più grave: l’insussistenza di un criterio oggettivo in grado di distinguere tra investimenti imposti dal regolatore e da remunerarsi in tariffa in quanto non redditizi, e investimenti invece decisi dalle concessionarie perché ritenuti convenienti, come generatori di flussi e incassi aggiuntivi. Questi ultimi dovrebbero essere attuati sulla base del principio di maggiori ricavi in grado di giustificarli.

Quindi non da remunerare allo stesso modo di quelli necessari alla sicurezza o alla digitalizzazione, per esempio, ma molto meno.
Ci fermiamo qui, non vogliamo scendere troppo nel tecnico. Quel che serve è una riforma generale che dia trasparenza: vanno remunerati gli investimenti realizzati e verificati, non quelli promessi e inverificati. Ed è necessario un meccanismo premiale per gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, vista l’età media avanzata delle opere e la necessità di evitare tragedie. Il governo ci pensi: serve molto più un approccio generale che rimetta ordine al caos autostradale opaco e pluridecennale, che dichiarazioni estemporanee che fanno fuggire i capitali dall’Italia. 
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