Politica e declino/Pezzi di Medioevo

di Virman Cusenza
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Venerdì 17 Agosto 2018, 00:05
Il medioevo sembra lontano, eppure non è mai stato così vicino. Sia pure a pezzi, a frammenti e con le debite proporzioni. Facciamo un piccolo passo indietro nella storia e corriamo al 415 dopo Cristo quando Rutilio Namaziano prefetto di Roma originario delle Gallie - in fin dei conti Tolosa non è poi così distante dalla Genova del ponte Morandi - decide di far ritorno nella sua terra d’origine per contare i danni che anche lì ha arrecato la discesa dei visigoti di Alarico che portò al sacco di Roma cinque anni prima.

Rutilio attraversa l’Italia e nel suo sguardo sconfortato conta i ponti crollati sull’Aurelia, mirabili opere di ingegneria romana ormai inservibili, e si duole dello stato in cui la capitale dell’impero versa dopo il saccheggio e la devastazione. La cloaca maxima esempio di una rete fognaria all’avanguardia, e perciò di civiltà urbanistica, inutilizzabile e destinata a produrre esiti devastanti sui cittadini. Strade che una volta erano percorse da legioni e sequenze sterminate di carri, diventate sentieri groviera con qualche epifania forse di ciò che sarebbero diventate le strade della Capitale di oggi.

Queste indelebili immagini di decadenza diventano i migliori versi del “De reditu suo”, l’opera attualissima di Rutilio che nasce da una penosa ricognizione di ciò che era rimasto di Roma. In cinque anni, i cristiani che nel frattempo avevano sostituito le classi dirigenti romane, avevano abbandonato al declino le opere distrutte.

Senza esperienza e la necessaria competenza a gestire la formidabile macchina imperiale, lasciano collassare ciò che restava ancora in piedi condannandolo ad un destino di rovine. Siamo alle soglie del medioevo, alla fine della ragione che con le sue tenebre ha reso la penisola e ciò che restava dell’impero un fossile.

Quella lezione oggi torna con feroce evidenza ma del tutto inascoltata. Ci ritroviamo, non senza sbalordimento, a discutere oggi se fosse giusto o meno preparare una via alternativa - la Gronda - al ponte Morandi per evitarne il sovraccarico e prevenire i danni di un crollo che poi è puntualmente avvenuto con uno straziante carico di vittime.

Discutiamo da qualche tempo calorosamente su ciò che a qualunque uomo di buon senso è sempre apparsa un’ovvietà: la necessità dei vaccini. Il risultato è l’esposizione al rischio epidemia dei molti per la proterva cecità dei pochi che sostengono di difendere un presunto diritto non fondato affatto sulla conoscenza. Viviamo giorni in cui l’effetto incantatore di qualche improvvisato suonatore di piffero trascina orde di cittadini verso il baratro come i topi della favola del pifferaio di Hamelin. Il tutto sotto la magica parola del consenso in cui ogni informazione, anche se non vera, ha lo stesso diritto di cittadinanza di un’altra, fondata e vera. Un contesto in cui insomma la logica dell’uno vale uno appiattisce verità riscontrabili al rango di dicerie degne di untori moderni.

Nello sconfortante spettacolo seguito al crollo del ponte Morandi, c’è la nient’affatto simbolica immagine del crollo delle certezze di un Paese. La vittoria del no ad ogni costo perché questo illude chi lo pronuncia di poter contrapporre un potere ad un altro. Un amaro gioco di interdizione che lascia solo macerie. Il tutto condito da un abile espediente retorico vecchio solo quanto il controllo delle masse. Sbattere il mostro, il presunto colpevole, alla gogna. Farne un rogo purificatore che ci assolva dagli errori commessi fornendo così un capro espiatorio all’opinione pubblica. Magari dimenticando che il disastro si poteva evitare dicendo dei sì al posto dei no. L’odio sociale così si materializza verso un bersaglio, un po’ come quei cristiani inesperti che al tempo di Rutilio indirizzavano le folle contro i simboli del passato - templi pagani o edifici imperiali che fossero - finendo brillantemente il lavoro dei barbari.

Una logica punitiva che trova uno dei suoi exploit ai nostri giorni nella vicenda dell’Ilva. In ballo c’è l’acciaio italiano: davanti alla ragionevole constatazione che vanno ridotte le emissioni, la risposta migliore non diventa ridurre queste ma anzi la ferma determinazione di stroncare un fiore all’occhiello dell’industria italiana. Una strategia autolesionista che con la pretesa di togliere quel margine del 2-3% di profitto all’impresa privata, finisce con l’impedire la ricaduta positiva del 50-60 per cento alla collettività e al territorio. Insomma, si combatte il presunto speculatore anziché garantire i benefici ai cittadini. 

Questo accade nell’anno 2018, più di mille e seicento anni dopo il viaggio disperato di Rutilio. Disperato non perché stentasse a trovare l’irriconoscibile strada di casa ma per la perdita della ragione collettiva. Ignaro di trovarsi già nel cono d’ombra del medioevo.

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