Giovani, periferie, disoccupati Il bazooka del referendum

Giovani, periferie, disoccupati Il bazooka del referendum
di Mario Ajello
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Martedì 6 Dicembre 2016, 08:42 - Ultimo aggiornamento: 19:17

Quello del No è un Paese anfibio popolato da un popolo non populista. Perché il voto referendario che ha travolto tutto ha anche reso obsoleta la categoria semplificante del populismo. «È un'etichetta che non dice e che non spiega più niente», conferma il demografo Alessandro Rosina.

E ragiona così: «Se vedo gli strumenti del welfare che non funzionano o che vengono tagliati senza un disegno percepibile, se vedo che la mia condizione economica e sociale peggiora e dunque divento diffidente verso i cambiamenti e mi rinchiudo nella difesa di quello che ho, sono un populista? Non credo che questa formulazione sia capace di spiegare la natura e la struttura estremamente variegata del popolo del No. Semmai, è certa politica che è populista, perché va a legittimare le ansie e le paure verso il cambiamento che soprattutto i ceti più deboli resi ancora più vulnerabili dalla crisi, quelli delle periferie e del Mezzogiorno, hanno manifestato in questa occasione».

I LAVORATORI
Il Paese del No è quello in cui i ceti medio bassi (fonte Swg) per il 70 per cento hanno votato contro la proposta del governo. Quello in cui, nella recente visita di Renzi allo stabilimento Fiat-Alfa Romeo di Cassino, il premier ha potuto constatare che due operai su tre erano per il No e non di trinariciuti o di Cipputi si tratta ma di giovani operai specializzati, iper-tecnologizzati, spesso non sindacalizzati.

Ed è il Paese, questo Paese del No (altro che populismo! E guai a ricalcarlo automaticamente e del tutto sul modello Brexit o da America che vota Trump), in cui «io voto No perché il potere vota Sì», perché «mio marito è precario», perché «voglio un lavoro stabile e il voucher è illusione di impiego», perché «le banche devono stare dalla parte della gente» ed è l'Italia dove la povertà - secondo l'Istat - tra gli anziani è diminuita e tra i giovani è aumentata. E questa Italia non si è risvegliata di colpo, è quella che in parte ha dato il 40 per cento a Renzi alle Europee del 2014 (ma ora il 64 per cento degli operai e il 74 per cento dei disoccupati che un tempo sarebbero stati i ceti tipici della sinistra hanno votato contro il premier-segretario del Pd) ma è anche abituata da anni a travolgere quello che sarebbe potuto essere il suo partito di riferimento, e votò solo al 37 per cento alle ultime regionali in Emilia e ha punito Renzi alle amministrative a Roma e a Torino. Sono anni che gli italiani dicono no e consumano con una velocità spasmodica partiti, movimenti, leader.

E così come Renzi, se avesse vinto, non avrebbe potuto dire quei voti sono miei, e non può dirlo del tutto neppure dei 13 milioni di Sì, nessuno dei partiti del No può dire che «quelle schede mi appartengono». Anche perché c'è di tutto in quel pezzo di nazione fatta da sei cittadini su dieci, che si sentono prezzolinianamente «apoti» (non la bevono la politica del tweet e del sorriso, dei bonus e delle promesse di sgravi fiscali: i 5 milioni di partite Iva si sono messe di traverso infatti), che ha costruito un tiranno che non è e che non c'è (cioè Matteo), che ancora non ha trovato il leader che lo rappresenti interamente e chissà se mai lo avrà, e insomma si tratta di un'Italia che parla così. Come Danny Cicognani, un imprenditore di Imola: «Fa paura, per il futuro dei miei figli, il fatto che non ci siano forze politiche capaci d'invertire la deriva economica e sociale. E mi sembra chiaro il progetto di continuare a smantellare il welfare a favore delle lobbies finanziarie, bancarie, assicurative e pseudo-coperative».

UNA MUTAZIONE GENETICA
Esagerazioni, naturalmente. Ma sulla base di questo e di altro, la mutazione genetica dell'elettorato italiano, che mai è stato amico del caos, lo ha portato all'anelito del muoia Sansone con tutti i filistei che non era delle vecchie culture politiche. Ma che non è (altra parola scaduta) anti-politica. E contiene invece elementi di conservatorismo (aggrapparsi ai vecchi vessilli come la Costituzione, nel senso: almeno ci resta quella), di critica fondata agli errori di governo (la riforma sbagliata della scuola ha prodotto il tradimento di metà degli insegnanti nei confronti del Pd), di paure, di nostalgie ma anche di voglia di coinvolgimento (i forgotten men esistono anche in Italia) e in questo coacervo i giovani costituiscono una vicenda a sé molto delicata.

Spiega ancora il demografo Rosina: «Non è certo la chiave del populismo che spiega il loro No. Stavolta non è accaduto, come sarebbe naturale, che i giovani fossero i migliori alleati del cambiamento, e ciò si spiega con il fatto che non hanno ancora visto da parte del governo un operato positivo per il miglioramento delle loro condizioni economiche. Qualche segnale c'è stato, ma troppo modesto». Ma le categorie dei ragazzi del No sono due. «L'altra - incalza Rosina - è quella dei giovani istruiti. Che vogliono partecipare a progetti di cambiamento e non essere spettatori. E per i quali l'offerta di cambiamento, anche costituzionale, non è chiara perché non è stata ben spiegata.

I giovani votano per il cambiamento, se capiscono dove il cambiamento vuole andare a parare». E così, ha fatto impressione, domenica scorsa, vedere in molti seggi coppie di genitori e figli, di nonni e nipoti e parlandoci i primi in molti casi dicevano «voto Sì» e i secondi: «Voto No». I No-isti come i «biancosi» di cui parla José Saramago in uno dei suoi romanzi più belli, «Saggio sulla lucidità», in cui narra di un popolo che in massa dà un voto non di pancia ma di testa e quel voto è la scheda bianca.

SICUREZZA E TEMI SOCIALI
E comunque questa Italia è quella che chiede più sicurezza rispetto all'arrivo dei migranti. Che, anche nella sua parte di sinistra, non sopporta che la sinistra anteponga i diritti civili (la legge Cirinnà per esempio) ai diritti sociali classici (il lavoro, la sicurezza). Che ha imbracciato il bazooka messole tra le mani da Renzi e lo ha abbattuto politicamente, come hanno fatto gli inglesi con Cameron e come è accaduto all'ungherese Orban il quale ha forzato allestendo il referendum sul muro anti-migranti e non lo ha vinto. E così, di fatto, anche in Italia, lo strumento referendario può rivelarsi, per le sorti del governo, più politico e più micidiale delle elezioni nazionali. Ossia una super-arma da democrazia diretta capace di travolgere l'obiettivo, ben oltre l'argomento in discussione che in questo caso è stato la riforma costituzionale.

Un ultimo aspetto, che può sembrare secondario ma attiene al carattere degli italiani, è quello delle diffidenze da campanile. Chissà se non rientri un po', nel popolo che ha detto No, quel sottofondo di diffidenza da atavico campanilismo. E qui aiuta una citazione tratta da libro appena uscito, «Così parlò Monicelli», in cui quel genio del regista rimpiangeva i bei tempi: «Fino a trent'anni fa, i toscani non andavano di moda». E non parlava di sigari.