Non si può dire, come si sta cercando di dire, che siccome quello di Roma era un sistema mafioso allora è più difficile risalire da tale abisso perché la mafiosità è l’aggravante più terribile che esista.
Dunque gli autobus non passano perché Buzzi e Carminati non erano soltanto due corrotti al bar ma proprio due boss da cupola e da cosca? E la Capitale non splende come dovrebbe, in fatto di buona amministrazione e di vivibilità, perché i trascorsi criminali sono stati giudicati terminologicamente più gravi di quanto era stato sancito dal primo tribunale?
La politica - con la Raggi che esulta e con l’incredibile dem Matteo Orfini il quale festeggia un verdetto-funerale in cui si dice che pezzi del suo partito erano ai vertici di un sistema mafioso - dovrebbe chiedersi invece se sia stata all’altezza di reagire, come veniva auspicato anche nelle ultime elezioni comunali, al fenomeno di cui stiamo parlando.
Al corpo di questa città è stata diagnosticata una malattia gravissima, Roma è stata bombardata di farmaci e di ricette salvifiche (quelli di prima erano tutti ladri, adesso ci penseremo noi) ma questo accanimento politico-propagandistico non è stato accompagnato da una profilassi vera. Cioè da un’azione di risanamento profondo, in grado di incidere a prescindere dal nome che è stato dato al morbo. Così, il corpo malato non si è rialzato, il fisico della Capitale è rimasto gracile e macilento, come i cittadini possono ogni giorno constatare.
E’ mancata un’attività di recupero, un’opera di bonifica. Che avrebbero dovuto comportare il ritorno a una normalità costruttiva nella Capitale, a un’efficienza amministrativa e a una visione di prospettiva che segnassero una netta discontinuità tra il prima inquinato e il poi disinfestato. Corruzione o mafia hanno agito invece come totem dietro cui ripararsi, come grumi fatti incombere sempre - nelle definizioni, nelle dichiarazioni, nella narrazione politica capitolina - e usati per nascondere deficit di iniziativa e penuria di idee per ripartire. Il grande alibi, appunto. Quello che a Roma non serve. Questa città ha pagato due volte: prima l’ignominia di dover sottostare a un sistema distruttivo, e poi la mancata scossa della ricostruzione. Dai poteri marci non si è passati in uno spazio di tempo sostenibile - tra la sentenza di primo grado e quella di secondo - ai poteri capaci di riscattare questa città dalla vergogna in cui è stata fatta precipitare da chi la governava prima e «a Roma governiamo noi», dicevano Buzzi e Carminati.
Ora si dovrà attendere la parola della Cassazione, ma non serve più sapere qual è il nome della cosa, quanto sperare che quella cosa smetta diventare una foglia di fico che copre la paralisi.
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