L'archeologo tra scavi, preistoria e cioccolata

L'archeologo tra scavi, preistoria e cioccolata
di Laura Larcan
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Sabato 14 Aprile 2018, 09:38 - Ultimo aggiornamento: 17 Aprile, 12:43
Ormai la chiama la mia Africa. Il rapporto è speciale. Sono sette anni che lascia Roma in autunno per raggiungere l'Etiopia e partecipare alla missione archeologica italiana della Sapienza diretta da Margherita Mussi. E qui, a duemila metri d'altezza sull'altopiano di Melka Kunture, Flavio Altamura ha identificato l'impronta fossile più antica del mondo di un bambino, vissuto oltre 700mila anni fa. Un piedino di bimbo di un anno. L'ha chiamato Abeba: significa fiore. Una scoperta che ha fatto il giro del mondo.

Verrebbe da dire, un piccolo passo di un bimbo, un grande passo per l'archeologia.
«L'archeologo vive di particolari soddisfazioni. Speriamo sempre di fare una scoperta capace di entrare nella storia collettiva di una popolazione. Ma quello che trovi in Africa interessa a tutto il mondo, perché stai parlando delle origini dell'essere umano».

Di Roma cosa si porta dietro quando è in Africa?
«L'atteggiamento romano, goliardico e affettuoso. È una cosa naturale che emerge nel modo di trattare le persone del posto. Al di là delle difficoltà linguistiche, risolviamo tutto con una bella interiezione romana».

L'archeologia in Africa parla romanesco allora. Come vengono accolti gli archeologi?
«Quando arriviamo coinvolgiamo almeno una trentina di persone tra guardiani, cucina, operai. È manodopera pagata a giornata. Ma sono diventati bravissimi, sono orgogliosi del loro territorio. Spesso si accorgono dei reperti prima dell'archeologo».

Il ricordo di una persona particolare?
«Il mio collaboratore, si chiama Worku, ha una settantina d'anni, è il mio angelo custode, mi ha sempre protetto sullo scavo e nel rapporto con gli altri operai. Adora la cioccolata, gliela portiamo tutti gli anni, è felicissimo. È l'unico del villaggio che porta gli occhiali, è riuscito a comprarseli anche con i soldi del nostro lavoro. Ora tutti lo chiamano doctor Worku».

Ma la sua romanità ha avuto in questi anni momenti di crisi?
«Nel 2016 la regione ha avuto problemi di rivolte locali, ma nel nostro villaggio la comunità è affezionata agli archeologi e ci hanno lasciato tranquilli. Forse, qualche piccola tensione ce l'abbiamo quando manca l'elettricità. Nelle notti africane mangiare al lume di candela è bello, ma la zona è frequentata da iene».

Quanto conta oggi Roma per un archeologo?
«Per me che sono un archeologo preistorico è stata illuminante: Roma è la terra degli elefanti antichi. Il turismo mainstream lo ignora, ma ci sono musei che lo raccontano. Da Casal de' Pazzi al sito della Polledrara».
Prima dell'Africa, ci sono stati momenti che hanno dato un senso alla sua carriera?
«Quando ho cominciato a collaborare con la Soprintendenza ho fatto scoperte emozionanti per me che amo i Colli Albani. Penso alla tomba della Dama degli zaffiri a Colonna, ora esposta a Palestrina. Era coperta da un abito d'oro e ornata da zaffiri dell'Asia».

Il suo nome è legato anche al Tesoro di Colleiano.
«58 monete medievali d'oro e d'argento. Le abbiamo trovate in un bosco a Rocca di Papa. È il primo tesoro così imponente databile al 1300 del Lazio».

L'archeologo oggi, lavoro bello ma complicato?
«Roma ha una grande scuola di archeologia, non a caso il dipartimento di scienze dell'antichità della Sapienza è stato eletto primo al mondo come prestigio. Il problema è che alla formazione non segue un inserimento sistematico nel mondo del lavoro. E le eccellenze corrono il rischio di andare all'estero per fare ricerca. Un paradosso»
 
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