dalla nostra inviata
BERGAMO - Dopo tre anni, 13.640 morti solo nei primi nove mesi del 2020 (quando in tempi normali erano poco più di 7.600) e una maxi inchiesta della Procura, parlare di Covid a Bergamo e provincia smuove sensazioni contrastati. C’è il dolore di chi ha visto andarsene persone care, l’equilibrismo istituzionale di fronte alle indagini - «Ne prendiamo atto, la giustizia farà il suo corso», commenta il sindaco di Alzano Lombardo, Camillo Bertocchi - l’irresistibile desiderio di dimenticare tutto. Che in molti casi ha prevalso, considerato che alle ultime elezioni il governatore Attilio Fontana, duramente contestato in piazza ai tempi dell’epidemia, qui ha stravinto con il 60,88%.
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I LUTTI
Chi invece del ricordo ne ha fatto la sua battaglia sono i familiari delle vittime, riuniti in un’associazione. «Non vogliamo vendetta, chiediamo giustizia», ripetono.
Finiti in una contabilità del dolore che ha la sua unità di misura nel numero dei morti. A Nembro, solo a marzo 2020, i decessi sono stati 152, cinque al giorno, in un paese dove solitamente ce n’erano dodici in tutto il mese. Ad Alzano 114 contro 10, a Zogno 89 rispetto a 8,2, più di dieci volte l’andamento storico. Nel primo pomeriggio Rosa Brambati, 75 anni, si affretta per una visita all’ospedale di Alzano. «Tutte le volte che vengo qui mi si stringe il cuore. Mio marito era ricoverato in medicina generale a febbraio 2020. È entrato sano e ha preso il Covid. Non mi stupisce, qui era tutto un via vai di visitatori e all’interno non c’erano precauzioni». Per la Procura di Bergamo sarebbero almeno 36 (due dei quali morti) i dipendenti del Pesenti Fenaroli contagiati a causa della mancata adozione di «tutte le misure tecniche, organizzative e procedurali» utili a «contenere la diffusione del virus» nella struttura. «Dire chi ha sbagliato, secondo me, sarà veramente difficile. Bisognerebbe mettersi nelle condizioni di chi si vedeva arrivare tutti quei malati», riflette Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri Irccs. Ciò che bisogna fare adesso «è non dimenticare e attrezzarci, in questi tre anni si è agito poco per mettere in sicurezza il nostro sistema sanitario nazionale». Tra coloro che hanno patito inesperienza e solitudine c’è Salvatore Mazzola, panettiere di Nembro. «Ci aspettavamo la zona rossa per Carnevale. Io mi sono portato i vestiti in negozio per trasferirmi a vivere lì e non portare il Covid in casa. E invece niente, non hanno chiuso. Mio padre aveva 81 anni, era un ex insegnante di educazione fisica, aveva una tempra forte e stava benissimo. Il 9 marzo accusa i primi sintomi, il 17 peggiora e ci consigliano di contattare un numero verde per non intasare i pronto soccorso già al collasso. Hanno fatto fare la diagnosi a me: “Respira bene? Quante tachipirine prende al giorno?”».
LA PAURA
In tutto questo, dice Salvatore, non ha mai fatto un tampone e nemmeno i famigliari in quarantena. «A fine marzo, mentre ero recluso in negozio, mi chiama mia moglie e mi dice che il papà non riesce più a respirare. Aveva la saturazione a 60. “Ma a 60 si muore”, mi dicono in ospedale, “perché non ce lo avete portato prima?”. E alla fine non ce l’ha fatta». In quei mesi Nembro era una bolla di disperazione. «Entravano i clienti e facevano l’elenco dei parenti deceduti. C’era solidarietà ma anche molta paura, ci chiedevamo quando sarebbe toccato a noi. Poi ci siamo sentiti dire che era stato fatto tutto bene».