In tasca dichiara di avere il Vangelo, il Rosario e quattro telefonini: due per parte. Chissà da quale dei quattro (per la squadra, per la famiglia, per le imprese e uno riservatissimo il cui numero, dice, conosce solo la segretaria, tutti spenti tre ore e mezzo a notte, tempo del sonno, e la domenica alla Messa) Lotito è stato “tradito”. E stoppato (forse? mai dire mai per citare qualcosa con il re delle citazioni, latine e giudiziarie, che è) nella sua resistibile ascesa al potere del calcio, quel calcio che «è per pochi, mentre il pallone è per tutti», ipse dixit. Lotito, classe '57, è entrato tra quei pochi. Laziale da quando aveva 6 anni e il fidanzato della tata chiese «regazzì, che squadra tieni?», «nessuna», «allora da oggi tifi Lazio». E Lazio fu (forse).
Patron dal 19 luglio 2004 quando acquistò 18.268.506 azioni della Lazio che «era al funerale, l'ho portata in condizione di coma irreversibile e spero presto di renderlo reversibile», ipse ridixit, e c'è riuscito, va riconosciuto.
È riuscito a sconfiggere un Agnelli portando Beretta alla rielezione in Lega (lì conquistò il primo strapuntino di potere per poi arrivare al sottotrono d'oggi), ha costituito una Santa (?) alleanza con Galliani e Preziosi per contrastare ogni altra alleanza (nemmeno quelle sante), non ha fatto una piega quando il suo candidato Tavecchio (poi eletto grazie a lui) ha parlato di Optì Pobà che mangiava banane e ora gioca nella Lazio (ma perché proprio la Lazio?); ha, come tutti, ottenuto vistosi sconti di pena dalla giustizia sportiva in saldi e qualche prescrizione in quella ordinaria, oltre ad ancor più vistose rateizzazioni di debiti fiscali. «Se vado al Governo risolvo i problemi in dieci anni» ha detto una volta parlando di politica: occhio a ricascare nel cliché della macchietta.