Il maestro Juraj Valčuha all'Opera di Roma con Jenufa di Janáček: «Vi faccio ascoltare
i suoni della natura e della mia terra»

Il maestro Juraj Valčuha, 48 anni, tra i massimi interpreti della musica di Janáček, ci accompagna nella sua terra, svelando le chiavi d’ingresso al capolavoro del realismo slavo di primo Novecento, Jenufa, all’Opera di Roma dal 2 al 9 maggio: un nuovo allestimento, firmato dal regista Claus Guth

Una scena di “Janufa” di Janáček, regia di Claus Guth, all’Opera di Roma dal 2 al 9 maggio
di Simona Antonucci
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Martedì 30 Aprile 2024, 08:12

«La storia è semplice. Jenufa mette al mondo un figlio illegittimo che tiene nascosto alla comunità del suo villaggio. Ma la matrigna ritiene che per la loro “salvezza” il bambino debba essere eliminato. Una nascita, e una morte, che alimentano uno scontro generazionale, una tragedia dell’incomprensione, che Janáček riproduce in una meraviglia di parole e musica. E sottolineo parole e musica perché il suo lavoro di scrittura trae nutrimento dal parlato: ha colto gli scambi delle persone in strada, al mercato, le diverse sfumature nel pronunciare un saluto, per tradurli in un discorso melodico».

Il maestro slovacco Juraj Valčuha, 48 anni, tra i massimi interpreti della musica del compositore ceco, ci accompagna nella sua terra, svelando le chiavi d’ingresso al capolavoro del realismo slavo di primo Novecento, Jenufa, all’Opera di Roma dal 2 al 9 maggio: un nuovo allestimento, firmato dal regista Claus Guth e realizzato in coproduzione con la Royal Opera House di Londra, dove ha debuttato nel 2021 ottenendo l’Olivier Award come miglior produzione operistica. Cantano Cornelia Beskow e Karita Mattila (Jenufa e Kostelnička); Robert Watson è Števa e Charles Workman è Laca.

Come viene riportato in note uno scontro generazionale?

«Come dicevo Janáček è stato in assoluto uno dei compositori più attenti al ritmo e alla melodia delle parole. E questa sensibilità si coglie nel discorso della giovane, più rapido, o in quello della matrigna che ha un’altra vocalità, più tesa e più vissuta. Il suo linguaggio musicale si sviluppa su piccoli motivi che provengono dal parlato. Quattro e cinque note che poi gestisce in un discorso più ampio. E che regalano uniformità all’opera».

Un esempio?

«Una qualsiasi espressione, pronunciata da persone di età o di strati sociali diversi, e in contrastanti stati d’animo, può portare a un’intonazione più alta, più estesa. O nei registri più estremi, nelle situazione estreme, come nella fine del secondo atto, quando la matrigna esplora acuti e poi toni più gravi. Quasi a salutare la morte che si affaccia dalla finestra. Janáček assorbiva il suono della vita, della tradizione musicale del suo popolo, ma anche i fruscii della natura, il rumore della neve fresca che scricchiola sotto i piedi o quello del mulino che trasferisce nello xilofono, in una nota che si ripete, a rappresentare il tempo che scorre in modo prevedibile: metafora della società».

Conoscere la lingua, anche per i cantanti, fa la differenza?

«Ogni lingua ha i suoi suoni e quelli di Jenufa sono particolari.

Dopo aver capito questo, credo che cantanti professionisti non abbiano difficoltà a cantare lingue che non conoscono. Perché la loro memoria insiste sulla fisicità del testo. Anche se credo che per gli specialisti di questo repertorio, sarebbe un investimento dedicarsi ad approfondirla».

Un capolavoro, non troppo rappresentato. Che cosa pensa delle scelte dei teatri, spesso orientati verso un repertorio “più sicuro”?

«L’Italia ha un repertorio molto vasto: è molto fortunata. E spesso, è vero, i teatri, qui, si adagiano su titoli sicuri, investendo meno sul Novecento. Ma portare lo sguardo su un repertorio dell’inizio del XX secolo, quando l’opera si sviluppa in nuovi Paesi e incrocia lingue meno conosciute, rappresenta un’esperienza di grande meraviglia. Gli argomenti restano universali, ma mettono in luce peculiarità dei luoghi di origine. Salomè, Peter Grimes, Pelléas et Mélisande, sono capolavori che ci permettono di capire come diverse culture abbiano elaborato quello che è nato in Italia».

Lei è nato nel cuore dell’Europa, ha lavorato molto in Italia, come direttore musicale dell’orchestra della Rai, del San Carlo di Napoli e ora è alla guida della sinfonica di Houston. Come è questo giro del mondo musicale?

«Il mio percorso inizia a Bratislava e procede nel cuore di quello che fu l’impero Austro-Ungarico. Poi ho studiato in Russia e a Parigi, città che mi hanno regalato un altro sguardo. In Italia ho lavorato tantissimo, non solo a Torino e Napoli. Ed è un Paese che fa ormai parte della mia vita. Non ho neanche l’impressione di tornare, perché è sempre dentro di me. Ora a Houston il lavoro è diverso perché è l’orchestra che funziona diversamente. Quello che è interessante, negli Stati Uniti, dove ci sono molti nuovi autori, è l’abitudine a frequentare compositori viventi che hanno una visione inedita sulla società. Ci interroghiamo su come Mahler, allora, suonasse la sua musica, ma poi ci priviamo dell’esperienza di farlo, adesso, con gli artisti contemporanei. Emozione che negli Stati Uniti diventa centrale in molte istituzioni».

Con questo spettacolo ha ritrovato la sua terra, le origini: che sensazioni ha provato?

«È uno spettacolo bellissimo, che non accentua gli aspetti folkloristici, ma li attraversa con grazia. Siamo in un villaggio delle terre morave. Con delicati richiami ai canti popolari. Ma la lettura va oltre e accentua il linguaggio e i contenuti universali». 

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