Giacomo Matteotti è il grande rimosso. Dovrebbe essere stato, ed essere tuttora, una memoria viva del peggio che l’Italia ha patito - la violenza del totalitarismo fascista - e del migliore futuro che ci meritiamo: un Paese profondamente e convintamente libero e consapevole di sé. Viceversa, Matteotti è nel dimenticatoio. Disturbava i sonni dei gerarchi del regime dopo la morte, perché si temeva il suo fascino e doveva dunque sparire anche la sua tomba perché non diventasse meta di pellegrinaggi politici e umanitari, e non è stato studiato, ricordato, celebrato lungo il ‘900 e nel nostro secolo quanto avrebbe meritato e quanto sarebbe stato utile farlo per tutti noi. Sono passati 100 anni dal suo tremendo assassinio ed è uno sforzo meritorio, e molto ben condotto narrativamente, quello che fa Concetto Vecchio nel suo libro-intervista (presentato ieri a Roma, alla libreria Pagina 348) per la Utet: Io vi accuso. Sottotitolo: Giacomo Matteotti e noi. Ovvero, con passo da storico (ma «io non sono uno storico», assicura l’autore) e insieme da giornalista (e lo è eccome, e di ottima qualità), Vecchio propone la vicenda della vittima del fascismo, eliminato per ordine di Mussolini nel 1924, come qualcosa che può farci pensare quanto il mix tra tragedia e amnesia sia agli antipodi della civilizzazione e della modernizzazione dell’Italia.
ITINERARI DI UNA VITA
Spulcia carte l’autore di Io vi accuso. Imbocca gli itinerari («Devo vedere. Le cose si capiscono solo andando sui posti») che appartennero alla vita e alla morte di Matteotti: dal Polesine dove il deputato socialista era nato e dove è seppellito, fino al quartiere Flaminio di Roma doveva abitava e dove fu prelevato sul Lungotevere per essere ucciso. Riflette, parla, ascolta Vecchio. Intervista la nipote Laura Matteotti, figlia di Matteo che era il figlio di Giacomo e di Velia. «A casa nostra - dice Laura al giornalista-storico - non si parlava di mio nonno. Il tema è sempre stato rimosso». Non solo in famiglia. L’Italia smemorata non ha mai voluto fare i conti con Matteotti. Con un personaggio che nelle pagine di questo libro non solo emerge per quello che è stato, un politico e un martire, ma si staglia - prima e dopo la sua tremenda fine - come il simbolo di una grande solitudine. Scrive Vecchio: «Matteotti è stato figlio di un dio minore, e tale è rimasto per tutto il ‘900 e oltre. E così venne, nella narrazione pubblica, schiacciato sul delitto, senza che gli fosse riconosciuta la grandezza politica, l’eroismo, il riformismo rivoluzionario» che lo contraddistinsero.
Non è strano, si chiede Vecchio, che per esempio il cinema abbia raccontato così poco Matteotti, il cui dramma si prestava perfettamente all’Italia repubblicana dominata, ora lo è molto meno, dalla cultura anti-fascista? L’unico film risale al 1973, con la regia di Florestano Vancini: Il delitto Matteotti.
LA SORPRESA
«Lo sa - dice a Vecchio - che Giorgio Almirante veniva regolarmente a prendere il tè a casa nostra?». «Almirante il leader del Msi?». «Sì, noi abitavamo in via Luciani 45, ai Parioli, e lui lì vicino. Con mio padre Matteo si era instaurata una singolare simpatia: il figlio di Matteotti e il capo del partito erede di quelli che lo avevano ucciso. Strano, no? Mio padre era molto elegante, e pure Almirante lo era». Tanti fili che s’intrecciano e soprattutto tanti fili - quelli della memoria - che vanno ancora liberati per farci sentire veramente liberi.