La norma sulla presenza delle associazioni anti-abortiste nei consultori? «Non ha alcun legame con il Pnrr». La doccia fredda per la maggioranza di governo arriva a metà mattina, al tradizionale punto stampa della Commissione Ue: interpellata a proposito dell’emendamento di FdI per inserire nel decreto legge sul Pnrr la possibilità per Regioni e consultori «di avvalersi, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, anche del coinvolgimento di soggetti del terzo settore che abbiano una qualificata esperienza nel sostegno alla maternità», la portavoce dell’esecutivo di Bruxelles che si occupa di affari economici, Veerle Nuyts, ha precisato che la misura non è una di quelle inserite nel Recovery Plan italiano e sulla cui esecuzione l’Italia deve dare conto all’Europa. Tutt’altro.
Certo, ha precisato poi, il decreto Pnrr in discussione in Parlamento «contiene anche misure relative alla struttura di governance del Piano nazionale di ripresa e resilienza, ma presenta pure altri profili che non hanno alcun collegamento con il Recovery Plan come, in particolare, la disposizione sull’aborto». In nessuno dei suoi obiettivi intermedi e finali (il cui raggiungimento “sblocca” il pagamento dei fondi del Piano) il Pnrr italiano prevede misure a tema di interruzione volontaria di gravidanza.
IL DIBATTITO ITALIANO
E il distinguo brussellese infiamma la polemica italiana, all’indomani della bocciatura di un ordine del giorno del Pd sulla questione, con l’astensione di 15 leghisti e un azzurro. «Pnrr e aborto non hanno nulla a che fare e ora ci rimprovera anche l'Europa», ha commentato la capogruppo del Pd alla Camera Chiara Braga, convinta che «non si può permettere accesso nei consultori ad associazioni contrarie al diritto fondamentale delle donne di decidere del loro corpo»: «È stata una forzatura ideologica e preoccupante che ci riporta indietro nel tempo e nelle conquiste.
Appena una settimana fa, la plenaria del Parlamento europeo aveva approvato una risoluzione dall’alto valore simbolico, ma non vincolante per i 27 Stati Ue, proprio sul tema dell’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza, proponendo di inserire, nell’articolo 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue, sull’esempio di quanto fatto da poco dalla Francia in Costituzione, una nuova parte relativa proprio all’aborto: «Ognuno ha il diritto all’autonomia decisionale sul proprio corpo, all’accesso libero, informato, completo e universale alla salute sessuale e riproduttiva e ai relativi servizi sanitari senza discriminazioni, compreso l'accesso all'aborto sicuro e legale». L’Italia, allora, era finita nel mirino dell’Eurocamera: il testo chiede, infatti, non solo che i governi Ue depenalizzino completamente l’aborto secondo le linee guida dell’Organizzazione mondiale della sanità (a Malta e in Polonia, ad esempio, è ancora vietato o fortemente limitato), ma pure che rimuovano gli ostacoli esistenti al suo esercizio, come la presenza di gran parte di medici obiettori di coscienza «che rende estremamente difficile, di fatto» l’interruzione volontaria di gravidanza in alcune regioni italiane. Nella risoluzione approvata a larga maggioranza dall’Eurocamera (a favore un ampio fronte di socialisti, liberali, sinistra, verdi, insieme a una quarantina di popolari), anche una netta presa di posizione: serve uno stop all’erogazione di fondi Ue nelle casse «delle organizzazioni no-gender e contro i diritti delle donne in materia di salute sessuale e riproduttiva».
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